Umorismo, Pastiche letterario ed Emarginati – Gli ingredienti di Dieci Dicembre di George Saunders

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Pare un buon momento per i racconti, là fuori. E questo non da un punto di vista della produzione, i buoni racconti si sono sempre scritti e sempre se ne scriveranno, no, io parlo dell’aria mediatica che si respira intorno o, se vogliamo essere più contemporanei e à la page, dell’hype. La Munro vince il Nobel, Jennifer Egan il Pulitzer con un romanzo in forma di racconti, si riscoprono autori come Silvio D’Arzo e anche da queste parti, finalmente, iniziamo ad accorgerci che la short story è un mondo affascinante. Insomma, è davvero un buon momento per un genere che in passato, ma forse anche adesso, è sempre stato alquanto avversato dall’industria culturale: convincere una casa editrice a pubblicare una raccolta di racconti non è cosa facile, i racconti non si vendono, i racconti non li legge nessuno, meglio un romanzo. Eppure la tempesta di premi che sta piovendo addosso a chi i racconti li ha sempre scritti sta forse cambiando qualcosa. E allora ecco che anche case editrici  come la Minimum Fax, che nei racconti ci ha sempre creduto, anzi, ne ha fatto per un certo verso il suo cavallo di battaglia, iniziano a raccogliere giustamente un po’ di frutti da questa nuova primavera delle narrazioni brevi.

Siamo andati via di casa, ci siamo sposati, siamo diventati genitori, abbiamo scoperto che il seme della grettezza fioriva anche dentro di noi

Dieci dicembre di George Saunders è l’ultimo arrivo in casa Minimum Fax, una raccolta di racconti, la quarta per lo scrittore americano (che prima in Italia era pubblicato da una non troppo convinta Einaudi), in lizza – e pure tra i più accreditati – per il National Book Award. Saunders si inscrive in quella tradizione americana che si è concentrata sul comico e sull’ironia come, per citarne alcuni, Donald Barthelme, Kurt Vonnegut e David Foster Wallace. Ed è proprio questo il carattere distintivo dello scrittore Texano, l’umorismo, accompagnato da una verve linguistica istrionica, capace di mutare voce a seconda del personaggio che in quel momento sta raccontando la storia: tutti i racconti di Saunders infatti hanno uno o più narratori interni, una tecnica mimetica che rende la lettura piacevole e coinvolgente. Infatti le vette più alte della raccolta, almeno secondo chi scrive, coincidono quando due punti di vista si scontrano nel raccontare lo stesso evento: i due bambini protagonisti de Il giro della vittoria, o le due mamme a confronto ne Il Cagnolino, e il bellissimo racconto finale Dieci dicembre, che dà il nome all’intera raccolta, in cui un uomo ammalato di tumore allo stadio terminale cerca il suicidio e viene salvato da un bambino che a sua volta si mette nei guai.

Anders ha detto: Chissà come sembro strano agli uccelli. Non ha riso nessuno, abbiamo solo fatto verso che uno fa invece di ridere, così Anders non rimaneva male, dato che sua madre morta da poco.

Ma non finisce qui, la trasversalità compositiva di Saunders si applica anche sul piano formale: il pastiche, il crocevia dei generi e il suo utilizzarli per poi ribaltarli, rivoltarli coma un calzino, unito all’uso di forme di scrittura della vita quotidiana come le mail o il diario sono altri elementi che caratterizzano la sua scrittura. Ed ecco allora la fantascienza comparire in Fuga dall’Aracnotesta e ne Le Ragazze Semplica, il documento ufficiale in Memorandum, il diario sempre ne Le Ragazze Semplica. Ne viene fuori un quadro molto eterogeneo da un punto di vista stilistico, ma estremamente coeso dal punto di vista tematico, simile, se vogliamo, ad un’opera cubista. Le narrazioni di Saunders riguardano tutte la grande società capitalista, i danni che ha provocato e dove ha portato i rapporti umani, dove li ha spinti, che cosa significa far parte di una famiglia, cosa significa avere dei sentimenti, delle ambizioni, dei desideri in un consesso umano dove la mercificazione, l’intrattenimento, la competizione, la regolazione del mondo  sono penetrati così nel profondo. E lo sguardo non è, come già detto, quello tragico del non-c’è-più-niente-da-fare, lo sguardo è quello penetrante del dubbio, perché è grazie al dubbio, alla messa al bando di ogni certezza, che potremmo tirarci fuori, forse, dalla melma in cui tutti noi siamo caduti. Ma Saunders lo dice meglio e in maniera più delicata e divertente della mia, quindi fatevi un favore, leggetevelo.

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 Dieci Dicembre

Autore: George Saunders

Traduttore: Cristiana Mennella
Editore: Minimum Fax
Dati: 2013, pp. 224, € 15,00

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Goethe Muore

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Potrebbe essere difficile individuare Goethe Muore tra gli scaffali di una libreria: quegli scaffali che sembrano cedere sotto il peso di tomi autobiografici che si attestano intorno alle novecento pagine, quasi sempre posizionati con la copertina in bell’evidenza a nascondere tutto ciò che sta dietro, e che accolgono, sotto l’imponente scritta “Impossibile non leggerli” che campeggia in alcuni settori di famose catene librarie, le opere, pur sempre dignitose, di Saviano e Gramellini, tanto per dirne due. Così, per riuscire a scovare quel centinaio di paginette che Adephi ha deciso di regalarci, per la nostra delizia, occorre impegnarsi, e leggere, dopo aver sollevato e rimosso quei tomi da novecento pagine, il dorso dei libri, giustamente collocati di taglio, a partire dalla lettera B, fino ad arrivare a Bernhard Thomas. Un’attività di ricerca, sempre consigliata (metti il caso che poi ci  si imbatta in un autore sconosciuto), che verrà ripagata dal piacere della lettura di questo piccolo grande tesoro  che, se per caso ce ne fosse bisogno, riconcilia con la letteratura. Perché le poche pagine di questi quattro brevissimi racconti (Goethe muore; Montaigne. Un racconto; Incontro; Andata a fuoco. Relazione di viaggio a un ex amico) è come se fossero mille pagine di riflessioni sulla condizione umana, sui metodi educativi, sul decadimento della società, sulla filosofia e sulla letteratura,  trattate con la vena satirica che contraddistingue lo stile di Bernhard, e l’ironia che si trasforma in dramma e lamento con l’assillante ripetizione delle parole. Racconti legati da un filo comune rappresentato dall’ossessione che i protagonisti manifestano verso un sistema educativo oppressivo che trova fonte indifferentemente nei propri genitori e nella patria (Germania o Austria nazionalsocialista che sia), in un crescendo di denuncia che trova riscontro nell’esperienza dell’autore contenuta nei suoi cinque romanzi autobiografici (L’origine. Un accenno; La cantina. Una via di scampo; Il respiro. Una decisione; Il freddo. Una segregazione; Un bambino).

Thomas Bernhard

Il primo racconto vede protagonista Goethe che negli ultimi giorni della sua vita (una vita e una storia reinventata da Bernhard) ha il solo desiderio, quello che lo renderà l’uomo più felice della terra, di incontrare colui che ritiene il suo legittimo successore: Wittgenstein; un desiderio osteggiato da tutti i suoi consiglieri, che non ritengono il filosofo del Tractatus logico-philosophicus (quello stesso Tractatus che Goethe custodisce sotto il cuscino) all’altezza del poeta (un pensatore austriaco! per di più), e che non verrà esaudito per una tragico evento. Qui, Bernhard gioca con lo stile, riportando, con una serie di rimandi, ciò che altri hanno sentito da altri, con giochi di parole e rincorrersi di nomi in cui è facile incartarsi: In effetti Kräuter, così Riemer, ha tentato ancora più volte di dissuadere Goethe dal far venire Wittgenstein a Weimar, e del resto non era poi neppure sicuro, così Kräuter, che Wittgenstein sarebbe davvero venuto a Weimar, anche se a invitarlo era Goethe, il più grande dei tedeschi, giacché il pensiero di Wittgenstein faceva vacillare tale sicurezza, così Kräuter alla lettera; lui, Kräuter, così Riemer, aveva però usato […].  Nel brevissimo racconto però ad emergere è la satira che raggiunge il culmine nel momento in cui si dubita (lo ammette lo stesso Goethe) della genuinità dell’opera goethiana, che non soltanto ha il merito, o la colpa, di aver paralizzato per un paio di secoli la letteratura tedesca, ma altro non è che il frutto di un raggiro beffardo nei confronti del popolo tedesco: così questi tedeschi, che si prestano come nessun altro, io li ho imbrogliati ben bene.

La verve ironica di Bernhard, però, prende un’altra piega, cupa e penetrante,  nel secondo racconto della raccolta, nel quale i destinatari delle invettive del protagonista sono i genitori, rei di una condotta educativa a dir poco repressiva:

Se ti avvicini al pozzo ti ammazziamo di botte, mi avevano detto quando avevo quattro o cinque anni. Se entri nella biblioteca vedrai cosa ti succede, mi dicevano, e intendevano niente di meno se non che mi avrebbero ammazzato di botte. Così, da bambino di quattro e cinque anni, mi avvicinavo al pozzo sempre e soltanto di nascosto, e da adulto, si fa per dire, entravo nella biblioteca sempre e soltanto di nascosto. Loro mi avevano dato a intendere che al pozzo avrei perso l’equilibrio e ci sarei precipitato dentro, senza possibilità di salvezza. E mi avevano sempre dato a intendere che nella biblioteca e in certi libri ben precisi, non dicevano esplicitamente libri filosofici, avrei perso l’equilibrio e ci sarei precipitato dentro, senza possibilità di salvezza.

Così, l’unico rifugio clandestino rimane la biblioteca della torre, e l’unica scialuppa di salvataggio la filosofia di Montaigne, autore di riferimento e ispiratore di tutta l’opera di Bernhard. La letteratura e la filosofia come unici strumenti che rendono l’uomo libero e pienamente realizzato.

Portrait of Montaigne (detail)

Ossessione, quella dei genitori e del sistema educativo, che ritorna ancora più prepotente in Incontro, in cui il racconto di un dialogo tra amici si trasforma in accorato monologo che nonostante il delirante crescendo dei ricordi del protagonista, si conclude con la frase finale dell’interlocutore che ribalta cinicamente ogni prospettiva.

Una foga accusatoria che nell’ultimo racconto prende di mira un altro simbolo della cultura oppressiva , quella ridicola Austria, di cui non vale la pena più parlare.

Temi ricorrenti, quelli di Goethe muore, che trovano conferma in altre opere di Bernhard e nella sua esperienza adolescenziale, come ne Il Freddo (letto in concomitanza), in cui Bernhard, ricoverato suo malgrado in un sanatorio per tubercolotici, cella per i suoi desideri e le sue inclinazioni, ha come unica via di scampo la poesia: esistevo soltanto quando scrivevo.

È lo stesso motivo per cui noi, comuni mortali, dovremmo leggere di letteratura e di poesia. La stessa ragione per entrare in libreria e cercare Goethe muore.

"Ghoethe muore" di Thomas Bernhard (cover)Titolo: Goethe muore
Autore: Thomas Bernhard
Editore: Adelphi
Dati: 2013 (1963), 111 pp., prezzo € 11,00

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Propositi per il nuovo anno [eBook – Free Download]

Finalmente ci siamo. Avremmo voluto regalarvi questo ebook prima che l’anno partisse ma poi la vita ci è piombata addosso feroce e quindi, come al solito, i nostri buoni propositi sono andati a farsi benedire. Ma ci abbiamo creduto, non abbiamo mollato e tra qualche difficoltà (non dico mille perché sennò, che si fa, sempre la parte della vittima?) siamo riusciti a sfornare questo nostro terzo ebook (li ricordate gli altri due? No? Bene allora qui trovate il primo e qui il secondo).

Ancora una pubblicazione collettiva ma questa volta non solo racconti, perché a essi si aggiunge una poesia. Cosa ci troviamo dentro dunque? Ci sono due nostre vecchie conoscenze Manfredi Giffone e Luca Mirarchi, già presenti in Odio l’estate: il primo con una creazione tutta nuova, il secondo con un racconto che è sequel di quel La meccanica degli affetti presente nella scorsa raccolta (ma che, vi assicuriamo, si può leggere in totale autonomia); c’è Fabio Donalisio che attraverso la sua poesia ci fa un oroscopo su come sarà l’anno nuovo, provare per credere; ci sono gli “esordienti” Fabio Tirapelle e Francesco Maria Rinaldi che, ognuno a modo loro, ci raccontano una storia di provincia; ci sono infine Piergiorgio Pulixi e Gianpaolo Roselli che invece infarciscono i loro racconti di armi: a che scopo? Beh, dovete leggere.

A questo punto non ci resta che augurarvi buona lettura e che i vostri buoni propositi siano più concreti e migliori dei nostri.

A presto,

La Redazione

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Ecco la nostra tracklist:

  • Gianpaolo Roselli – La guerra in testa
  • Manfredi Giffone  – °F 451
  • Fabio Donalisio – Astrologo
  • Fabio Tirapelle – Otis
  • Francesco Maria Rinaldi – Morto da una vita
  • Piergiorgio Pulixi – Deep Web
  • Luca Mirarchi – L’ultimo volo di Batman

Ogni casa è una storia – una chiacchierata con Paolo Cognetti

Di Sofia si veste sempre di nero ne avevamo già parlato qui. Ma il libro ci ha intrigato a tal punto, sia per i temi trattati che per la struttura insolita, che abbiamo sentito l’esigenza di sederci a tavolino, accendere Skype e iniziare a chattare con Paolo Cognetti. Quello che ne è venuto fuori lo trovate qui sotto. Buona lettura.

Sofia e la sua bambola di carta

[17:05:18] cataldo: È inevitabile parlare del struttura per questo tuo libro. Però io la lascerei un attimo da parte perché quello di cui mi preme parlare è una caratteristica tua che ho riscontrato in tutti i tuoi libri. Ossia che non sei ossessionato dal descrivere il presente. Perché?

[17:08:00] paolo cognetti: Perché penso che serva una certa distanza tra uno scrittore e le cose che racconta. Per lo meno funziona così per me. Distanza nel tempo e nello spazio: questo libro l’ho scritto soprattutto in montagna, sentendomi lontano da tutto. Quanto al tempo, mi sembra solo adesso di riuscire a pensare bene agli anni Novanta, che sono stati quelli della mia adolescenza. Per gli anni Zero mi servirà un altro po’.

[17:09:03] cataldo: Quindi ecco perché sono assenti i device tecnologici che sembrano tanto modificarci la vita oggi, un po’ come questa chat.

[17:09:32] paolo cognetti: Eh sì. In compenso uso un sacco di roba vintage, come le cabine del telefono e le lettere scritte a mano.

[17:11:02] cataldo: Eppure il modo di narrare, la struttura appunto, è estremamente moderna. Sembra ci sia un ritorno di fiamma per il “romanzo di racconti”. La butto là: è come se rispecchiasse l’andamento ramificato della rete.

[17:13:13] paolo cognetti: Sì, un’immagine possibile è quella della rete. L’altra a mio parere è la serie televisiva. Credo che queste strutture, e i nostri tempi in generale, siano contraddistinti dalla velocità e dalla complessità, che solo in apparenza sono in contraddizione. Si può organizzare una narrazione che sia allo stesso tempo breve e complessa? Il “romanzo di racconti” è un tentativo di farlo.

[17:13:53] cataldo: È, in sostanza, una riflessione sul tempo.

[17:14:29] paolo cognetti: Credo che il tempo sia il tema più importante di cui scrivere oggi. Come funziona il tempo nella nostra testa, intendo.

[17:16:23] cataldo: Tu come numi tutelari citi Hemingway e Salinger però io leggendo il tuo libro ho trovato molto anche della riflessione che Bolaño fa su struttura e tempo: i punti di vista sempre diversi e le incoerenze sono parti fondamentali della costruzione del racconto e della memoria nei Detective Selvaggi. E credo anche nelle storie di Sofia.

[17:18:33] paolo cognetti: Guarda, ho una lacuna enorme su Bolaño e infatti la sto riempiendo, ho 2666 proprio qui davanti a me. Ne riparleremo quando l’avrò finito. Per ora posso dirti che il mio vero nume tutelare è Alice Munro: i racconti di Nemico, amico, amante e di tanti altri suoi libri sono splendidi tentativi di rappresentare gli schemi della memoria.

[17:19:35] cataldo: Un altro tema del libro è il nomadismo, tutti i personaggi sembrano inquieti quando stanno fermi. Prova ne sono anche i cambi di location.

Sofia si veste sempre di nero, di Paolo Cognetti (Minimum Fax, 2012)[17:21:34] paolo cognetti: Io direi che il tema del nomadismo si accoppia in Sofia a quello della casa. Lei a un certo punto dice a una sua amica: una casa è una scatola che divide il mondo in due soli spazi, un dentro e un fuori. E io come scrittore sono ossessionato da quel dentro, che poi è l’interiorità dei personaggi: dal modo in cui i personaggi abitano gli spazi e abitandoli scrivono la propria storia. Poi Sofia è una che scappa dalle relazioni che finiscono, perciò giustamente non fa scappare da una casa all’altra.

[17:22:06] cataldo: Anche in questa concezione della casa c’è Alice Munro

[17:22:29] paolo cognetti: Sì, lei dice spesso che una storia è come una casa. Io aggiungo che ogni casa è una storia.

[17:23:05] cataldo: Quindi in sostanza il nomadismo deriva anche dall’esplosione dell’ultima grande istituzione, diciamo così, italiana: la famiglia.

[17:24:26] paolo cognetti: Ecco, qui siamo un po’ nel cuore della storia di Sofia. All’inizio del libro i suoi genitori sono in crisi, e per risolvere questa crisi pensano bene di lasciare Milano e comprarsi una villetta in Brianza. Poi quella villetta sarà la prigione di Sofia e il primo luogo da cui lei fugge. La famiglia in quanto tale la detesterà sempre.

[17:24:54] cataldo: Tanto è vero che nell’ultimo racconto – Brooklyn Sailor Blues – Sofia appare priva di ogni legame

[17:25:39] paolo cognetti: Si è liberata di tutto e pure del bisogno di avere una casa. Diventa una vagabonda. Qualcuno mi dice che il libro sembra non avere un finale, ma a me pare invece un finale coerente con il percorso di Sofia.

[17:27:07] cataldo: Attraverso Sofia, vediamo tutta una serie di personaggi, molto diversi tra di loro per età anagrafica, concezioni del mondo e attitudini. Tu fai delle vere e proprie incursioni nelle loro vite, quanto è stato difficile costruirli?

[17:28:44] paolo cognetti: È stato difficile ma è anche la cosa che più mi appassiona della scrittura, questo scavo dentro ai personaggi che porto avanti fino a sentirli vivi, io per primo. E poi ho usato delle persone che conosco bene. Tranne Sofia e sua madre, tutti gli altri sono miei amici. E la scrittura per me è anche un modo per ritrarre, raccontare le persone a cui voglio bene.

[17:31:06] cataldo: Alla fine devo dire che è proprio Sofia il personaggio più sfumato, meno delineato. Mentre altri, come il padre, arrivano più chiari e diretti ai nostri occhi.
[17:31:27] cataldo: (Disegnata dal vento è il mio racconto preferito).

[17:34:28] paolo cognetti: Secondo me anche Rossana è ugualmente sfuggente. Proprio perché Rossana e Sofia sono la stessa donna con due destini diversi. È vero, c’è qualcosa di inafferrabile in loro e il mio scrivere è stato come un orbitarci intorno, osservarle da tutti i lati, vedere come modificavano gli spazi e le vite delle persone. Probabilmente non sono arrivato a toccarle, come invece mi è successo con Marta o Roberto, e in fondo va bene così. Penso alle Vergini suicide di Eugenides, inafferrabili nella loro casa. A Holly Golightly che lascia la stessa sensazione alla fine di Colazione da Tiffany. (Anch’io sono molto legato a Disegnata dal vento, è la storia di mio padre).

[17:36:30] cataldo: Un altro racconto che mi ha affascinato molto è Una Storia di Pirati che in qualche modo scolpisce la filosofia ribelle di Sofia.

[17:38:04] paolo cognetti: Quel racconto è nato dal grande amore che ho vissuto per un luogo e un gruppo di persone, la Scighera. È un circolo anarchico di Milano ed è un po’ la mia seconda casa. Scrivendo Una storia di pirati in realtà pensavo a noi, che conquistavamo la nostra Tortuga, ci barricavamo lì dentro e trasformavamo la Bovisa nel Mar dei Caraibi all’inizio del Settecento.

[17:39:12] cataldo: Il personaggio di Oscar in particolare  mi è rimasto impresso. È come se il suo spettro si aggirasse per tutti i racconti, tanto da pensare di rincontrarlo.

[17:41:32] paolo cognetti: Infatti mentre scrivevo l’ultimo racconto, Brooklyn Sailor Blues, mi sono detto: non sarebbe più giusto che invece di Pietro, a Brooklyn Sofia ritrovasse Oscar? Era il tipo giusto per finire a fare il marinaio di Brooklyn. Però aveva un carattere molto diverso da quello del mio alter ego. Allora ho fatto dire a Sofia: non è che ci siamo conosciuti a sette anni, e non me lo ricordo più? Insomma un po’ di Oscar sopravvive fino alla fine del libro.

[17:42:16] cataldo: Come lo spirito della giovinezza che si fa fatica ad ammazzare.

[17:43:08] paolo cognetti: Come uno spirito guida, che durante la vita scompare e riappare ma ci conduce in giro per il mondo e per le nostre scelte.

[17:44:14] cataldo: Senti perché hai deciso di chiudere il romanzo su Brooklyn, non ti è sembrato un po’ di giocare col fuoco descrivendo i ragazzi che provano a fare il salto andando in America?

[17:48:02] paolo cognetti: Ma sì, ho giocato col fuoco raccontando la lotta armata e la fabbrica negli anni Settanta, le villette a schiera negli Ottanta, i centri sociali nei Novanta. Sembrano luoghi comuni ma se quelle cose le hai viste coi tuoi occhi sai che sono le vite delle persone. Io a Brooklyn voglio un bene enorme, ci vado da molti anni ormai, in Brooklyn Sailor Blues ho messo tutto quello che conosco di quel posto. Sono contento perché le persone che amano Brooklyn quanto me amano anche il racconto, è l’apprezzamento migliore che potessi desiderare.

Paolo Cognetti[17:50:27] cataldo: torniamo agli aspetti formali, per l’ultima volta, giuro
[17:51:03] cataldo: i vari racconti hanno tutti un narratore diverso eppure l’ultimo sembra suggerire una chiave di lettura che ribalterebbe la situazione
[17:51:43] cataldo: la domanda dunque è: quanto si può sperimentare attraverso il racconto?

[17:54:39] paolo cognetti: Il narratore di tutti i racconti è Pietro, che un po’ gioca con la vita di Sofia. Perché alcune parti gliele ha raccontate lei ma altre se l’è inventate, del resto Sofia gli ha dato il permesso di farlo. Quanto si può sperimentare? Non so, a me i margini della sperimentazione non interessano molto, amo molto alcuni scrittori e cerco di copiare da loro, aggiungendoci ogni volta qualcosa di mio. Di certo sono uno che si annoia in fretta. Questo lo diceva Carver a proposito del suo amore per il racconto. Mi annoio come lettore e come scrittore, perciò ho sempre bisogno di cambiare linguaggio, punto di vista, tempo della storia, struttura narrativa. Il racconto è perfetto per uno come me.

[17:57:46] cataldo: Prima parlavi di serie tv. A me leggendo il tuo libro un po’ mi è venuta in mente Six Feet Under: anche in Sofia si veste sempre di nero sembra che i rapporti sociali, qualsiasi rapporto sociale, alla fine si estingua anche se le persone fanno tutto il possibile per arginare questa fine.

[18:00:09] paolo cognetti: Sì, i rapporti tra le persone si estinguono. E Sofia vive questa condanna in un modo bruciante. Però una persona in questi giorni mi ha detto anche che il mio è un libro molto affettuoso, nel senso che le persone, nella vita di Sofia, si prendono molto cura le une delle altre. Vale per Marta con Rossana e Sofia, per le attrici, per Pietro. Le relazioni sono le vere zone di autonomia temporanea: poi finiscono, ma finché durano sono rivoluzionarie.

[18:01:56] cataldo: Mi piacerebbe tenere questa come chiusa ma non riesco a resistere dal farti l’ultima provocazione: siamo proprio sicuri che questi racconti si possono leggere in maniera indipendente uno dall’altro? Ho l’idea che questo tuo libro sia più romanzo (o serie) di quanto sembri.

[18:02:41] paolo cognetti: Fai una prova, danne uno a caso a qualcuno che non ha letto il libro e vedi cosa dice. Secondo me funziona!


Titolo: Sofia si veste sempre di nero
Autore: Paolo Cognetti
Editore: Minimum Fax
Dati: 2012, 208 pp., 14,00 €

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Ma voi gli spaghetti cozze e vongole, come li preparate?

No, non è tanto una questione di ricette, sebbene ci siano anch’esse alla fine di questi assaggi d’autore di cucina letteraria editi da Slow Food, quanto piuttosto di come si senta il sapore delle cose che si mangiano, quanto ci si sporchi le mani a prepararle, quanto quello sporco sia piacevole e bislacco, quanto ci sia di memoria e tempo in ogni ingrediente, in ogni gusto.

La questione è la storia che leghiamo (accade a tutti) a un piatto; e il tempo che si interpone tra il momento in cui assaggiamo il piatto che diventerà il Nostro si occupa del resto. Di renderlo squisito, panacea capace di cavarci d’impaccio, inimitabile, unico. E cucinare è un atto di generosità che travalica le mode e le tendenze. Per cucinare (per farlo bene) è necessario dedicarsi, mettersi a nudo: il cibo che prepariamo è assolutamente una delle nostre più genuine manifestazioni. È la parte più gustosa di noi, quella più nustriente che scegliamo di regalare, di condividere con gli altri.

Mi sto dilungando. Io adoro mangiare e cucinare mi rilassa e rinfranca, scrivere di cibo altrettanto. Perdonatemi. Per questa ragione cerco titoli, autori, che possano saziarmi in un senso e nell’altro; cerco libri capaci di nutrirmi e ritengo che le narrazioni che includono almeno una preparazione siano doppiamente accorte. Per questa stessa ragione rifuggo da ricettari blasonati e copertine urlate. Ma se negli scaffali incontro libri dalla copertina di quella ruvidezza elegante che toccarla è un piacere, senza quarta di copertina, senza strilli, piuttosto con un titolo chiaro, una citazione e una illustrazione semplice e diretta come quelle di Chiara Carrer sanno essere, allora mi innamoro. È una partita persa contro principi e propositi: cerco l’unione dei sensi; senza scampo. Del resto il prezzo di copertina lo consente con i suoi accomodanti 5,90 €.

Child Eating Soup  di Guillaumin, ArmandIl primo, azzurro carta da zucchero per confezionare Spaghetti cozze e vongole alla maniera di Nicola Lagioia; “il bello è solo il tremendo all’inizio. E tuttavia può risultare vero anche il contrario”. Così si apre questo racconto culinario di Nicola Lagioia; scavo nella mia memoria ma non mi pare di essermi mai imbattuta in un incipit più evocativo di questo. Da queste due righe in avanti la lettura è obbligata e coinvolgente. L’ho preso in mano in cucina, i miei piatti sono già sui fornelli e probabilmente dovrei seguirli con maggiore attenzione, la sedia è scomoda, non è esattamente quella che avrei scelto per leggere. La lettura non era prevista per quel momento, eppure devo leggere fino in fondo, non ho molta scelta, sono conquistata.

Sono conquistata dal ricorso al ricordo d’infanzia che si fa adulto, che ricorre e ritorna a condire e mitigare il presente. Il racconto è fedele all’impianto classico della storia che prende l’avvio da un’occasione per diventare altro, per evolversi in un’altra esperienza o un’altra occasione, per tendere la mano e salvarci. Il ricordo così com’è non basta; bisogna nutrirlo d’esperienza e l’esperienza la si fa anche in cucina. Gli spaghetti cozze e vongole mangiati da bambino nel 1981 a San Cataldo in provincia di Lecce sono “una promessa di lontananza a due passi dalla bocca”; già dal primo boccone saporito, profumato e fumante si affermano protagonisti incontrastati, archetipi. Però non ho trovato traccia di nostalgia, piuttosto la sana ricerca della perfezione cui è lecito mirare quando si è certi di averla, almeno in un’occasione, incontrata. Mi ero fatta un’idea di questo racconto che si è rivelata essere del tutto sbagliata ma non fuorviante; mi ero fatta l’idea, ingenua, che trattandosi di cibo questo racconto avrebbe avuto un gusto che invece era solo mio. Per fortuna di quell’idea è rimasto poco, certamente immutate e fresche sono invece la vitalità e l’eleganza, la profondità degli intenti e la delicatezza del risultato.

Titolo: Spaghetti cozze e vongole
Autore: Nicola Lagioia
Editore: Slow Food Editore
Dati: 2012, 48 pp., 5,90 €

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Una donna libera di fine Ottocento

Siamo alla fine dell’Ottocento. Un’epoca ancora troppo incline allo scandalo per poter accettare una giovane desiderosa di avventura, senza alcun desiderio di sistemarsi al fianco di un buon partito. Forse il lungo racconto di Henry James potrebbe essere ambientato anche ai giorni nostri. Cos’è cambiato da allora? Le idee o ciò che si dice di pensare? Ma partiamo dall’inizio: siamo a Vevey, in Svizzera, dove un giorno arriva in visita a una zia un giovane americano di nome Frederick, da tempo residente a Ginevra. La tranquillità del luogo, dominato da un placido lago, è destinata a lasciare il cuore del protagonista, presto invaso dal desiderio, misto a inquietudine, per Daisy Miller, una ragazza americana come lui, giunta in Europa per un viaggio di piacere insieme alla madre e al fratellino.

Inquietudine dicevamo. Henry James non spiega esplicitamente il perché di questo strano sentimento; com’è nel suo stile, indaga i sentimenti dei personaggi in modo che sia il lettore a dare una spiegazione. La sua finezza consiste proprio nel portare alla luce sensazioni confuse di cui capiamo i motivi man mano che procediamo con la lettura. Frederick rimane infatti turbato perché Daisy non è imbarazzata quando parla con lui. Per quanto americana, si dimostra comunque un po’ sopra le righe rispetto alle donne dell’epoca, tutte rossori e ritrosia. Daisy affronta un uomo a viso aperto; ecco cosa lo affascina ma allo stesso tempo spaventa. “[ … ] non era né offesa né emozionata ; non si poteva tuttavia dire che vi fosse nel suo atteggiamento nulla di “sfrontato”, poiché la sua espressione era limpida e composta come l’acqua di sorgente; era assai ben disposta verso la conversazione”.

Ecco il punto: Daisy non è artificiale. Non ha bisogno di schiamazzi e starnazzi per farsi notare da un uomo né di tenergli testa rabbiosamente. È naturalmente “alla sua altezza”. Mi verrebbe da dire che l’Henry James di Daisy Miller sia una sorta di femminista ante litteram. Chissà quante volte lui, così introverso e pacato, avrà provato sensazioni simili di fronte a donne serenamente vitali. Ma anziché trincerarsi dietro un atteggiamento misogino, quello che fa nel racconto (chissà nella vita) è di mettersi dalla parte di lei, ragazza incompresa e giudicata. Specialmente dalla comunità americana residente a Roma, tappa del suo lungo viaggio in Europa, dove Frederick la incontra mesi dopo i pochi giorni passati insieme a Vevey come due vecchi amici. È nella capitale che Daisy subisce maggiormente le critiche dei benpensanti americani, specialmente per la sua frequentazione di “tipici cacciatori di dote romani della razza peggiore”. A rendere triste il racconto, però, è l’incertezza di Frederick, che pur essendo terribilmente attratto da Daisy, rimane a distanza per via di un comportamento che non riesce a decodificare.

Di quale reato si macchia dunque Daisy? Di indipendenza? Di autonomia intellettuale? Di tradimento ai nobili costumi? Sono domande che la triste conclusione del racconto lascia aperte. Noi ringraziamo Henry James per aver anticipato i tempi e rimproveriamo Frederick, che non è stato in grado di combattere i pregiudizi sociali, che tuttavia in fondo al cuore lo inorridivano.

Titolo: Daisy Miller
Autore: Henry James
Editore: Rizzoli
Dati: 2008, 125 p., 6,90 €

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Odio l'estate [eBook – Free Download]

Ed eccoci qui con la novità della nostra estate. Dopo le compilation musicali (a proposito avete scaricato l’ultima, vero?) AtlantideZine ha deciso di regalare ai propri lettori una compilation di racconti inediti, il cui titolo è tutto un programma: Odio l’estate. Sei racconti di sei autori, che reinterpretano la stagione della spensieratezza e del divertimento attraverso il segno negativo, sei racconti per stemperare la calura e riportare un po’ di inverno dentro le nostre teste bollenti.

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Ecco la nostra tracklist:

  • Luca Mirarchi – La meccanica degli affetti
  • Elena Orlandi  – Zolle
  • Alice Spano – La vita naturale
  • Barbara Ferraro – Tre nodi, stretti uno dopo l’altro
  • Manfredi Giffone – Dopo di te il tramonto
  • Leonardo Palmisano – Più forte di tutto

A noi non  resta che augurarvi una buona estate e una buona lettura, sperando che tutto ciò sia di vostro gradimento.

Con affetto,

La Redazione

Titolo: Odio l’estateAA. VV. - Odio l'estate (raccolta di racconti)
Autori: Luca Mirarchi, Elena Orlandi, Alice Spano, Barbara Ferraro, Manfredi Giffone, Leonardo Palmisano
A cura di Cataldo Bevilacqua
AtlantideBooks
Dati: 2012, pp 94


Licenza Creative CommonsOdio l’estate by Luca Mirarchi, Elena Orlandi, Alice Spano, Barbara Ferraro, Manfredi Giffone, Leonardo Palmisano is licensed under a Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0 Unported License.

Non c'è una zona grigia tra il nero del male e il bianco del bene

A. C. Quarello - Janet la stortaNon c’è una zona grigia tra il nero del male e il bianco del bene. Non c’è perché non esistono gesti in parte crudeli o in parte buoni. E ciascuno di noi, che lo voglia o meno, è portatore sia di quel bianco che di quel nero, e, come esplicitato da Goffredo Fofi nella postfazione a questo lampo che è Janet la storta di R. L. Stevenson, “il male ha le sue attrattive, come ogni fuoriuscita dalla regola, dall’ordine imposto. Crescere vuol dire questo, e vuol dirlo da sempre: capire la differenza tra il bene e il male”.

Un capolavoro di sessantaquattro pagine in cui Maurizio A. C. Quarello, l’illustratore, riesce a dialogare con Stevenson su pari livello. Gli occhi iniettati di sangue di Janet (la storta), i corvi che sembrano trovare nel suo cappello il proprio nido hanno la stessa valenza delle parole di Stevenson: sfogli le pagine, le incontri, ne sei colpito, sei costretto da un desiderio misto ad angoscia a indugiare sui dettagli, Ti colgono di sorpresa e ti lasciano turbato.

Aveva ragione la maggior parte della gente a mettere in guardia il giovane reverendo Murdoch Soulis? Avrebbe dovuto assecondare il pregiudizio di un aspetto assolutamente poco confortante? L’uomo nero, del resto, lo sanno tutti che può nascondersi ovunque, albergare in esseri anche meno inquietanti di Janet; Janet dalla risata inconcludente, dai gesti convulsi, dall’incedere incespicante e furioso.

A. C. Quarello - Janet la stortaA. C. Quarello - Janet la storta

Siamo tutti dalla parte di Janet quando le comari puritane tentano di annegarla secondo lo schema classico della lotta alle streghe: se affoga, peccato… se resta, caparbiamente, a galla peccato… è una strega. E queste parrocchiane non fanno nulla per scardinare l’appoggio pieno che il lettore dà al reverendo. Agiscono da ottuse; si comportano come se fossero investite da una facoltà di giudizio ineccepibile. Eppure Janet da quel bagno di soffocante inquisizione esce inospitale a qualsiasi empatia e la tensione sale.

Ripenso a L’isola dei morti alla desolazione imperante in quel dipinto come nello spaventoso isolamento del reverendo; ripenso ai toni dell’ocra e del bruno che toccano quella tela come queste pagine e inzuppano delle acque dello Stige ogni frase, ogni parola. Parole e frasi che, in perfetto stile short story, evocano con intensità e freddezza: ogni pensiero è lancinante, comincia e si conclude senza strascichi senza commistioni. A ogni momento la sua personale paura.

La vecchia Janet un po’ strega, un po’ diavolo, un po’ maga è storta; ancora riprendo Goffredo Fofi e la sua postfazione “Janet sta tutta da una sola parte, la parte dell’oscurità, della notte, del male, di ciò che continuiamo a chiamare demonio”: è thrawn, come in scozzese si dice per twisted, crooked, perverse. Perfettamente “storta”. Altrettanto calzante la traduzione di Paola Splendore che riesce a restare fedele a quella freddezza di ritmo e intensità che rendono questa lettura per adolescenti e adulti piena.

*A. C. Quarello quest’anno ha vinto il Premio Andersen come miglior illustratore e in regalo con questo albo un poster.*

Titolo: Janet la Storta
Autore: R. L. Stevenson, A. C. Quarello
Traduttore: Paola Splendore
Editore: Orecchio acerbo
Dati: 2011, 64 pp., 15,00 €

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Seleziona il prodotto e scopri come morirai

Verrà la morte, e avrà l’aspetto imprevisto, asettico e un po’ squallido di un distributore automatico pubblico. Di quelli che si trovano ovunque, tra centri commerciali, stazioni dei treni, ingressi dei supermercati, sale giochi, bagni della metropolitana. Solo che da quel distributore non usciranno caramelle, giocattoli usa-e-getta o preservativi sottomarca, ma semplici cartoncini bianchi con una scritta nera che, come sempre, si porteranno via la primavera. Nessuna data, su quei cartoncini, nessun dettaglio; soltanto un’unica, solitaria parola che racchiude la sentenza che tutti vorremmo conoscere, ma nessuno vuole sapere: la causa, ambiguamente inesorabile, della nostra morte. Dai classici “Cancro”, “Suicidio”, “Enfisema”, “Fame”, ai più accattivanti “Marshmallow in fiamme”, “Non facendo ciao, ma annegando”, o “Sfinimento da sesso con minorenne”.

L’idea, nata in rete da una striscia comica di Ryan North, prevede l’esistenza di un mondo in cui chiunque, facendosi fare un semplice esame del sangue, riceverà subito un fogliettino che gli rivelerà il modo in cui è destinato a morire. Subito il successo riscosso dall’ipotesi di un mondo del genere è stato tale, che centinaia di scrittori o aspiranti tali hanno deciso di sviluppare, ognuno dal suo punto di vista, le infinite possibili declinazioni di una premessa tanto affascinante, inquietante, comica o enigmatica. Il risultato sono i trentacinque racconti che compongono l’antologia La macchina della morte, appena edita in Italia da Guanda.

Ora, come norma generale, quando sento parlare di antologie di racconti scritti da esordienti, per sicurezza metto mano alla pistola. In questo caso poi stiamo parlando di un’antologia presentata da un T-Rex parlante e in cui il cognome di uno dei tre curatori si scrive con il punto esclamativo; e ogni racconto è introdotto da un’illustrazione perlopiù bruttissima; e in fondo al volume ci sono le biografie degli autori scritte in quel modo simpatico da ggiovani esordienti della letteratura, del tipo “James Foreman abita a Pittsburgh e probabilmente in questo momento sta bevendo caffè”, oppure “Dean Trippe è un mago ninja robot e alieno (venuto dal futuro) che crea fumetti” (sic). Sì, decisamente ho ucciso per molto meno. Ma poi.

Ma poi, procedendo racconto dopo racconto (letteralmente; i libri li leggo dall’inizio anche quando non è necessario), sempre più avvincente diventava l’inesorabile meccanismo a orologeria che governava questo mondo in cui tutti sanno di che morte moriranno, ma non hanno bene idea di come, dove o quando succederà. In cui le diverse possibilità narrative offerte dall’esistenza di una Macchina della Morte si esprimevano in tutta la loro ambiguità già dai titoli, con quell’unica parola netta e lapidaria come una sentenza, ma enigmatica come il responso di un oracolo che – come tutti gli oracoli che si rispettino – schiude infinite alternative nel momento stesso in cui sembra specificarne una soltanto.

il trionfo della morte regina e la danza macabraLa scelta più apprezzabile consiste proprio nel tentare di rispondere alla domanda di fondo (come cambierebbe il mondo se tutti sapessimo come moriremo?) riducendo al minimo lo spazio della filosofia spicciola sul libero arbitrio e sul fatto che la causa della nostre morte sia da sempre infallibilmente codificata nel nostro sangue, e concedendo invece tutto il palco a Sorella Falce, allo sviluppo puro e semplice delle varie situazioni di coloro che si preparano ad affrontarla, all’esplorazione dei mondi e delle strutture sociali creati dalla presenza di una Macchina in grado di predire la morte. Come nel primo racconto (Marshmallow in fiamme), divertentissima teen tale in cui il responso, fornito ai ragazzi al compimento dei 16 anni, coincide con l’inizio di una nuova vita e l’ingresso in nuovi gruppi accomunati proprio dall’identica previsione: così quello dei “bruciati” è il gruppo dei ragazzi fighi, i suicidi sono una specie di gruppo emo e quelli che moriranno di vecchiaia i più pallosi della scuola. O in Verdure (forse il più bel racconto della raccolta), in cui la morte equivale alla liberazione dei veri istinti del protagonista, che solo dopo aver scoperto il responso che lo riguarda realizza finalmente la propria intima, “elettrizzante” personalità.

Niente di inquietante o angosciante, insomma. Potrete leggere questi racconti anche (anzi, soprattutto) se avete paura della morte, o (come il sottoscritto) dei prelievi di sangue. Anche perché, a farla da padrone su tutti i casi umani che si trova a governare, è quasi sempre l’umorismo volontario o involontario di un responso che rivela nascondendo. “Vecchiaia”, ad esempio, potrà voler dire morire nel proprio letto a cent’anni, ma anche essere investito da un’auto guidata da un vecchio mentre si va al supermercato; o “Suicidio”, che non per forza dovrà essere il tuo, quando ti toccherà… Insomma, la morte, come la vita, dimostra qui di avere un sense of humour tutto suo. Ma non illudetevi: anche nel più bizzarro dei mondi, a ridere per ultima è sempre lei.

Titolo: La macchina della morte.
Notizie da un mondo in cui le persone sanno di che morte morire

Autore: Ryan North – Matthew Bennardo – David Malki !
Editore: Guanda
Dati: 2012, 549 pp., 19,00 €

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"Il segno era ovunque: il segno era la giovinezza"

Immaginate di essere in libreria: date uno sguardo alle nuove uscite e vi soffermate sul libro di Jennifer Egan, Il tempo è un bastardo, edito da minimum fax. Leggete sulla copertina che ha vinto il premio Pulitzer 2011, inequivocabile segno di affermazione nell’establishment culturale americano. Quindi cominciate a sfogliarlo: subito il vostro sguardo si ferma sulle settanta pagine elaborate come slide di PowerPoint  – ossia tutto il capitolo 12 – su quasi quattrocento pagine in totale. E in effetti, a livello comunicativo (soprattutto in rete, dove potete trovare un video con le slide a colori lette ad alta voce), questo è il romanzo con “un capitolo in PowerPoint”. Ma non bisogna fidarsi troppo del marketing, nell’economia del libro il capitolo 12 non ha più peso degli altri e anzi, per essere precisi, bisogna innanzitutto chiarire che Il tempo è un bastardo non è propriamente un romanzo e non è propriamente diviso in capitoli. Dunque ci troviamo di fronte a un testo innovativo, sperimentale? E come mai avrebbero dato il Pulitzer, un premio istituzionale, ad un testo così innovativo? La trama si infittisce, occorre fare un po’ di ordine.

Il tempo è un bastardo è suddiviso in 13 short story indipendenti ma correlate tra loro, ciascuna tratteggia il punto di vista di un personaggio diverso, la narrazione è di volta in volta in terza o in prima persona, in un caso si ricorre a un Tu colloquiale per accentuare un effetto straniante (episodio 10, Fuori dal corpo), e in un altro al narratore onnisciente (il 4, Safari, parodia dei topos di Hemingway, caratterizzato da vorticosi flash-forward che illuminano in mezza pagina sulla vita futura di alcuni personaggi). Viene da chiedersi: questi capitoli/racconti, in che modo sono collegati fra loro? Attraverso i legami sentimentali, familiari o professionali, che porteranno i personaggi ad incrociarsi nel corso del tempo. Attraverso il comune denominatore dell’industria della musica: Bennie Salazar, un ex bassista punk ora produttore e Sasha, la sua assistente con problemi reiterati di cleptomania, sono le figure germinali nella struttura narrativa, e di fatti li incontriamo fin dalle parti iniziali della narrazione. A seguire, dall’episodio 3, Sai che m’importa, al 6, X e O, espandiamo il mondo di Bennie. In Sai che m’importa (davvero preciso nel rendere la mutevolezza di stati d’animo dell’adolescenza e il fragore sottopelle col quale queste variazioni sono percepite), è Rhea, sua amica dai tempi del gruppo – i Flaming dildos, a San Francisco – che fa da voce narrante. Poi spaziamo intorno a Lou Kline, mentore di Bennie, produttore nell’epoca d’oro del rock e incapace di diventare adulto, e in X e O ritroviamo Scotty, che ha lasciato la chitarra e si abbandona a soliloqui involuti mentre pesca sull’East River. Nei tre episodi successivi il punto di vista ruoterà su Stephanie, la prima moglie di Bennie, poi sulla sua collega Dolly, rampante p.r. che per un party andato storto finirà a curare il look dei dittatori, e infine su Jules, fratello di Stephanie, giornalista, che sarà arrestato per il maldestro tentativo di stupro ai danni di un’attrice dopo un’intervista (l’episodio 9 che ricalca, nella forma, i réportage giornalistici di David Foster Wallace, comprese le note a piè di pagina). Tra il 10, Fuori dal corpo e il 12, spostiamo nuovamente il focus sui legami di Sasha: ce ne parleranno il suo compagno d’università Rob, destinato a una prematura morte; suo zio Ted, che la cercherà fra i bassifondi di Napoli, tappa momentanea della fuga della ragazza tra l’Europa e l’Asia (nei vicoli partenopei, mentre il sole picchia su civiltà sepolte, si sente quasi un eco della Venezia di Thomas Mann); sua figlia Alison, nelle ormai famose slide dell’episodio 12, Le grandi pause del rock: riferite ai microintervalli di silenzio talora inseriti nelle canzoni, vera e propria ossessione dell’altro figlio di Sasha, forse affetto da una forma di autismo. Queste pause, queste ellissi nel tempo, potrebbero fornire una chiave interpretativa di tutto il libro. Le nostre vite non sono che un continuo alternarsi di notte e giorno, di movimento e pausa. Gli intervalli, le trasformazioni, la “morte” di una condizione che permette di esperire quella successiva, gli stati di coscienza che fermiamo nella memoria, sono come tante piccole morti che permettono agli individui di essere vivi. Oppure prendiamo la nostra percezione degli altri: quanto esistono, per noi, le persone che abbiamo smesso da tempo di frequentare? Eppure a volte ci si reincontra dopo dieci anni e sembra che siano passati pochi giorni…  ma cosa è successo nel frattempo?

I capitoli/racconti del libro di Egan sono costruiti attorno a dei punti di rottura, e talora, alla dimensione personale, fa da controcanto il piano sociopolitico: Bennie cerca di riprendersi dal fallimento del primo matrimonio nella New York post 11 settembre; Rob annega nell’East River (lo stesso fiume dove pescava Scotty), mentre Clinton, nell’autunno del 1992,  interrompe dodici anni repubblicani; Rhea e Jocelyn attraversano la linea d’ombra della giovinezza con la cresta verde e i collari borchiati, quando il punk sta rubando la scena al progressive rock – ed è curioso notare come alcuni critici abbiano paragonato il libro ad un concept album. Per Il tempo è un bastardo non è difficile trovare modelli extra-letterari, la stessa Egan ha dichiarato d’essersi ispirata a Pulp fiction per la time-line scopertamente alterata, nella quale da un episodio all’altro si salta indietro o avanti nella cronologia, spingendosi addirittura, alla fine del libro, in una New York futuribile, dove le protesi elettroniche sempre più condizionano le masse e il loro linguaggio. Temi cari al Don DeLillo di Mao II, e l’accostamento ad uno dei numi tutelari del postmoderno ci riporta alla domanda che avevamo posto all’inizio: può un romanzo innovativo vincere il Pulitzer? Forse, ma non è detto che sia questo il caso. Dal quadro che abbiamo tracciato emerge un testo proteiforme in modo quasi troppo manifesto, eccessivamente ribadito a livello superficiale. La varietà di storie e invenzioni è essenzialmente priva di centro, manca un macro-intreccio narrativo principale, piuttosto troviamo tanti micro-intrecci quanti sono i personaggi intorno ai quali è organizzato il discorso. L’elemento che concorre davvero a dare al libro un respiro più ampio, rispetto a una raccolta di racconti con i personaggi correlati, è proprio la dimensione temporale, la possibilità di inquadrare alcuni protagonisti in momenti diversi della loro vita. Ma se gli sbalzi cronologici avvengono tra un episodio e l’altro, lo sviluppo di ciascun racconto/capitolo risulta invece piuttosto lineare. Rispetto ai classici del postmoderno o anche, per dire, a Palahniuk , la sovrastruttura sociale rimane soltanto sullo sfondo, ci si concentra soprattutto sul mondo ristretto dei personaggi e questo, se da un lato ne arricchisce la caratterizzazione, dall’altro smorza l’interesse sul testo nel suo insieme, anche perché il fulcro dei racconti, nella maggioranza dei casi, tende a essere sempre lo stesso: il dolore per il tempo che passa, il rimpianto per la giovinezza perduta, l’Età dell’oro in cui tutto poteva ancora succedere. Così non resta che cercare nel sesso, nel rapporto con l’Altro, il modo per esorcizzare la paura della morte. È superfluo dire che di solito queste relazioni falliscono, e non rimane che puntare sui figli – più assennati dei padri – per sperare in un altro giro di giostra. Così alla fine, anche se ci viene ricordato per mezzo di diversi registri narrativi, dal linguaggio colloquiale alla satira di costume, la canzone, parafrasando i Led Zeppelin, rimane la stessa. Una canzone, tuttavia, quasi sempre piacevole da sentire, grazie a una scrittura fluida e sempre capace di non annoiare. Il tempo è un bastardo è soprattutto un’opera di intrattenimento ben confezionata: di questi tempi, non è certo un risultato da sottovalutare. Magari, per la fine del mondo, sceglieremo un’altra colonna sonora.

Leggi il primo articolo su Il tempo è un bastardo qui!

Titolo: Il tempo è un bastardo
Autore: Jennifer Egan
Editore: EMinimum Fax (collana Sotterranei)
Dati: 2011, 18,00 €, 391 pp.

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