Contro la dittatura dei geni

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Cosa determina il nostro aspetto fisico? Cosa definisce il nostro maggiore o minore livello di intelligenza? Cosa influisce sul nostro comportamento, sui nostri gusti sessuali, sulle nostre probabilità di successo nella società? Secondo molti, la risposta a queste domande è sempre la stessa: i geni.

Il travolgente successo della genetica ha reso il gene un paradigma dominante non solo nella biologia moderna ma anche nell’immaginario collettivo, un paradigma secondo il quale nell’informazione genetica è contenuto tutto ciò che definisce gli esseri viventi – e quindi anche l’uomo – dal punto di vista fisico e comportamentale. Negli ultimi decenni è emerso un pensiero gene-centrico forte, una metafisica determinista alla quale, per dirla con le parole di Bertrand Jordan, biologo molecolare, «non aderiscono solo i giornali e i giornalisti, che quasi ogni giorno ci propongono l’identificazione di un qualche gene che, in modo del tutto improbabile, governerebbe i nostri caratteri più complessi e i nostri comportamenti più personali. A questa metafisica aderiscono, spesso, anche alcuni uomini di scienza. E persino qualche biologo». Jordan scriveva queste parole in un libro dal titolo significativo, Gli impostori della genetica, ma già una decina di anni prima c’era stato chi si era scagliato contro il determinismo genetico. Si tratta del genetista Richard Lewontin, classe 1929, uno dei pionieri della genetica delle popolazioni e dell’evoluzione molecolare, autore di un libro breve e intenso, anch’esso dal titolo estremamente significativo, Biologia come ideologia, edito in Italia da Bollati Boringhieri.

Nel 1990, Lewontin venne invitato a tenere le Massey Lectures, delle lezioni radiofoniche che ogni anno, per una settimana, vengono organizzate in Canada su temi politici, culturali e filosofici. Da quel ciclo di discorsi nacque in seguito questo libro.

Due sono i binari su cui si muove la critica di Lewontin. Il primo è quello scientifico; il genetista americano spiega come il determinismo genetico sia basato su ipotesi deboli, dal momento che già negli anni ‘90 si sapeva che l’informazione contenuta nel genoma non era “il” linguaggio della vita bensì “uno dei” linguaggi della vita. Durante la formazione di un individuo, dall’uovo fecondato all’adulto, i processi di sviluppo embrionale e i fattori ambientali possono infatti interferire con l’attività dei geni, spegnendoli e attivandoli. In più, gli stessi prodotti dei geni, le proteine, possono a loro volta agire sull’espressione genica, modificandola. Risulta dunque chiaro che il gene non è la “molecola capo” che siede in cima a una gerarchia biologica, bensì un elemento integrato in un sistema complesso, che influenza ed è a sua volta influenzato dagli elementi che lo circondano.

R LewontinLewontin prosegue allargando il campo e andando ad affrontare il tema della sociobiologia, una corrente della sociologia secondo la quale esistono geni per ogni forma di comportamento sociale, dalla religiosità all’intraprendenza, dal dominio sessuale alla xenofobia, geni che quindi dovranno passare il filtro della selezione naturale per guadagnarsi un posto al sole nella società. Se i geni determinano gli individui e gli individui determinano la società, ne consegue che i geni determinano la società. Una società la cui fissità e le cui gerarchie sarebbero dunque “giustificate” dalla natura biologica delle sue componenti individuali. E allora, «se tre miliardi di anni di evoluzione ci hanno resi quel che siamo, crediamo davvero che un centinaio di giorni di rivoluzione ci cambieranno?», chiede provocatoriamente Lewontin.

Alla dimensione sociale del determinismo genetico il genetista americano dedica le pagine più polemiche. Secondo lui, il pilastro su cui si regge questa visione distorta della biologia è la falsa distinzione fra individuo e ambiente e, più in generale, fra interno ed esterno. Una distinzione che porta a isolare le singole componenti di un sistema, sia esso biologico o sociale, creando l’illusione che queste unità individuali e autonome determinino con assoluta certezza le proprietà dell’insieme, biologico o sociale, in cui si riuniscono. Una distinzione che non considera come le interazioni reciproche fra le singole componenti possano far sì che proprietà inesistenti a livello individuale emergano poi nel passaggio al livello di gruppo. L’origine di questo riduzionismo esclusivo ed estremo è associata, secondo Lewontin, al passaggio dalla società feudale, priva com’era di libertà individuale, a quella capitalista e iper-competitiva. «Questa concezione individualistica del mondo biologico,» scrive infatti l’autore, «è semplicemente un riflesso delle ideologie rivoluzionarie borghesi del secolo XVIII che collocarono l’individuo al centro di ogni cosa». La scienza non è un’entità superiore e distaccata ma un’istituzione sociale immersa nella realtà del proprio tempo, che influenza e dalla quale è influenzata, secondo quel principio di interattività che è alla base del pensiero del genetista di Harvard.

Dal punto di vista stilistico, Lewontin ha scelto, come lui stesso racconta nell’introduzione, di mantenere i toni discorsivi della radio. Scelta efficace dal punto di vista comunicativo, poiché contribuisce a tenere alto il ritmo e a non smorzare la forza polemica del testo, ma che costituisce anche il suo tallone di Achille. Certi passaggi – come quello sulla tubercolosi e le sue vere cause – vengono infatti affrontati con una rapidità che potrebbe disorientare, e talvolta anche disturbare, più di un lettore. Si potrebbe obiettare che l’importante è dare stimoli e spunti per una discussione critica del problema, il che è vero, ma ciò smaschera il secondo difetto del libro, e cioè la scarsità della sua bibliografia. Un maggior numero di riferimenti aiuterebbe infatti il lettore ad approfondire i temi, tanti, che Lewontin tira in ballo.

Si tratta di due difetti tutto sommato secondari, che non intaccano la forza del pensiero del genetista di Harvard. Che piacciano o no, le sue critiche smascherano questioni reali e attualissime anche a vent’anni di distanza, il che rende questo libro una lettura necessaria, per ricordarci quei problemi che né la società né tantomeno la scienza possono permettersi di trascurare.

31m8AA9mc8LTitolo: Biologia come ideologia. La dottrina del DNA
Autore: Richard Lewontin
Editore: Bollati Boringhieri
Dati: 1998, pp. 98, euro 13,00

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La hit del momento? The NEW Periodic Table Song

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Forse è un pochino geek e non è che qui nella redazione di AtlantideZine siamo grandi esperti di chimica, ma questa canzone di AsapSCIENCE sulla tavola periodica con tanto di ritornello e video animato, ci ha completamente conquistati: un piccolo capolavoro.

La canzone snocciola uno dopo l’altro tutti gli elementi della tavola periodica ognuno accompagnato da una affermazione che lo caratterizza e da un’illustrazione. È in inglese, fosse stata in italiano siamo sicuri che l’illustrazione dello stronzio sarebbe stata molto diversa.

Animalia coloratissimo per zoologi in erba

Se c’è una cosa che accomuna tutti i bambini e che sempre si manifesta è la passione per gli animali. Alcuni di loro si concentrano sugli insetti, altri si improvvisano paleontologi, altri ancora birdwatcher. Tutti e sempre prima o poi ci sorprenderanno con osservazioni tecnico scientifiche assolutamente pertinenti. Per questa ragione ritengo che albi illustrati come quelli realizzati da Nicola Davies e Marc Boutavant siano gli strumenti ideali per nutrire il naturale interesse dei bambini.

I bambini assorbono informazioni da fonti diversissime sebbene spesso confezionate in modo assolutamente superficiale e inadatto alla loro età. Nicola Davies fornisce invece informazioni chiare, semplici, complete e consequenziali costruendo un metodo fatto di ritmo che il bambino associa a ciascuna famiglia animale con naturalezza.

Chi è come me accompagna il piccolo lettore alla scoperta delle classi animali attraverso indovinelli, alette da sollevare e coloratissime illustrazioni: gli animali sono molto diversi tra loro ma hanno alcune caratteristiche in comune; il filo conduttore più immediato che io troverei tra il coniglio e la volpe è che quest’ultima mangia il malcapitato saltellante.

In realtà entrambi sono ricoperti di pelo, respirano aria, partoriscono i propri piccoli e li nutrono con il latte, in una parola sono mammiferi. Leggere induce il bambino a scoprire, a far proprie le informazioni ma soprattutto stimola la “ricerca autonoma”: gli esempi che i piccoli vi proporranno in seguito alla lettura e secondo quel ritmico metodo (indovinello, caratteristiche) vi sorprenderanno.

Cosa diventerò spiega, in modo semplice e poetico, le fasi della vita di cinque animali: la farfalla, l’orso, l’uccello, la tartaruga e il girino. Le alette da sollevare creano un effetto sorpresa e, assieme alle illustrazioni tenere e dai colori vivaci, assicurano il coinvolgimento del bambino. Che cosa diventerà un puntino nero all’interno di una goccia di gelatina? Sollevando l’aletta la risposta è immediata: un girino! Ma non finisce qui, giacché, voltando la pagina, il girino crescerà pian piano fino a diventare una rana capace di lasciare lo stagno e deporre a sua volta tante lucenti palline di gelatina dal puntino nero…

Entrambi gli albi, dal formato quadrato con copertnia cartonata e rigida dagli angoli smussati, sono divertenti, coloratissimi, vivaci. Il linguaggio con il quale Nicola Davies racconta la zoologia (è il suo campo peraltro essendo una zoologa) è un delicatissimo ed equilibrato insieme di dettagli e poesia, e le illustrazioni buffe e senza fronzoli sono portatrici dello stesso linguaggio. Ne consiglio la lettura a tutti i bambini dai tre anni in poi.

Titolo:Chi è come me?
Autore: Nicola Davies, Marc Boutavant
Editore: Editoriale Scienza
Dati: 2012, 24 pp., 12,90 €

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Titolo:Cosa diventerò
Autore: Nicola Davies, Marc Boutavant
Editore: Editoriale Scienza
Dati: 2012, 24 pp., 12,90 €

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Curiosità chiama, Mario Tozzi risponde!

perché i vulcani si svegliano - Roberto LucianiUna buona notizia per la redazione di AtlantideZine: Mario Tozzi, esperto geologo, a furia di leccare i sassi e di indagare con il martelletto a portata di mano tra fossili e rocce, forse riuscirà a ritrovare l’isola perduta di Atlantide. Sarebbe davvero straordinario per la nostra rivista avere una sede all’asciutto!

Comunque, distratta dalla questione di Atlantide, non ho ben approfondito quella del leccare i sassi; cosa che incuriosisce anche Federico Taddia, intervistatore di teste toste e ideatore dell’omonima collana. Il perché Mario Tozzi lecchi i sassi è solo una delle decine di domande cui il geologo risponde: lo fa perché così la superficie bagnata delle rocce racconta più cose alla lente e al microscopio e comunque pare che non ci sia cosa più pulita dell’interno di una roccia con milioni di anni sulle spalle.

È curioso questo libro, bello come gli altri di questa collana, giacché alle domande risponde con altrettante domande a fossili, pietre, rocce, pietre preziose,che, pur non essendo animate, hanno sempre delle risposte concrete e coerenti. Per questo il libro scivola via in un batter d’occhio, si legge tutto d’un fiato, oppure saltellando da una domanda all’altra, approfondendo gli argomenti che più incuriosiscono. Perché nulla rimane in sospeso, anche le questioni più dibattute e domanda dopo domanda, ci si rende conto di come tutto sulla Terra sia in equilibrio e anche gli tsunami, i terremoti, i vulcani rientrano in questo equilibrio: è l’uomo, coi suoi interventi sconsiderati, che mina questo equilibrio e combina pasticci molto pericolosi.

Ma, sono curiosa: quanta terra c’è sulla Terra? Perché alcune pietre sono preziose? Cosa succede se i ghiacciai si sciolgono? Perché l’acqua del mare non finisce mai? Insomma, dal più profondo degli oceani, a milioni di anni fa, alla più alta montagna,  fino al bollente centro della nostra Terra, Mario Tozzi è instancabile, risponde alle domande impertinenti di Federico Taddia con un tono che tradisce un amore intenso e dolce per la nostra rocciosa Gaia.

Perché i vulcani si svegliano? è la terza intervista a una testa tosta le altre due sono a Margherita Hack e Telmo Pievani: Perché le stelle non ci cadono in testa? e Perché siamo parenti delle galline?

Titolo: Perché i vulcani si svegliano?
Autore: Federico Taddia, Mario Tozzi
Editore: Editoriale Scienza
Dati: 2011, 96 pp., 11,90 €

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Segreti atomici svelati dalla straordinaria voce di Marie Curie

“Nella vita non c’è nulla da temere. C’è solo da capire”. Marie Sklodowska Curie

marie-curieCi sono stati due elementi che mi hanno colpita profondamente in questo piccolo volume (parte della collana Lampi di genio di Editoriale Scienza) dedicato a Marie Curie. Il primo è la sua dolce determinazione, mai competitiva o affannata, fatta di curiosità e amore per la conoscenza. Il secondo è la spiazzante ingenuità (che può sembrare forzata in questo campo) che la renderà vittima della propria, sensazionale, scoperta.

In Marie Curie e i segreti atomici svelati Luca Novelli lascia la parola a Marie che diviene quindi protagonista e voce narrante sensibile e simpatica. Doveva essere una persona piacevole oltre che un genio! Una ragazza strepitosa insomma quella che si racconta: dai primi anni in Polonia, sua terra natia, a quelli a Parigi, densi di studi e d’amore, è proprio qui che incontrerà Pierre, l’amore della sua vita. Insieme a Pierre fa una scoperta scientifica di importanza straordinaria, incommensurabile, alla quale sarà legato, nel bene e nel male, il destino dell’umanità intera: la radioattività, e grazie alla quale vincerà due premi Nobel, diventando la scienziata più famosa della storia.

La scienza deve essere al servizio di tutti, questo il motto di Marie Curie, che fece suo anche quello del suo amico Albert Einstein per cui tutto è relativo. Persino la pericolosità di quella che Marie sentiva come una propria creatura: la “sua” radioattività, giacché “come tutte le grandi scoperte ha in sé un lato buono e uno cattivo. Sta a noi farne buon uso”.

Come gli altri volumi di questa collana, Marie Curie e i segreti atomici svelati, presenta un dizionarietto “atomico”  con tutte le parole radioattive dalla “A” di alchimia alla “U” di uranio arricchito.

Titolo: Marie Curie e i segreti atomici svelati
Autore: Luca Novelli
Editore: Editoriale Scienza
Dati: 2011, 128 pp., 8,90 €

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Tutti, nessuno, qualcuno

È ben giusto che questo albo illustrato faccia parte della collana “1, 2, 3 raccontami una storia” di Editoriale Scienza, perché è una storia e anche di quelle ben costruite: protagonisti animali, precisamente gatti, avventure metropolitane, ingiustizie contro cui combattere, piccole, ma gustose, rivalse e lieto fine.

Un quartiere della città, tra i tanti, poteva vantare un primato: tutti i gatti che lo abitano sono di colore nero.

E tutta la meraviglia dei felini di liquirizia viene illuminata dai loro occhi gialli, risplendenti nel buio “che ingoiava tutto il resto del suo stesso colore”. I gatti neri erano orgogliosi di questo primato tanto da renderlo manifesto in un cartello all’entrata del quartiere su cui si leggeva: “Tutti i gatti del quartiere sono neri”. Regna l’armonia tra i gatti tutti neri, fino a quando una scritta di vernice gialla non interviene a insinuare il dubbio: non è vero! Recita, campeggiando sotto al programmatico proclama.

Ed è esattamente a questo punto che le code dei gatti (per il momento tutte nere) si intrecciano a un ricordo di qualche tempo fa e scodinzolano dinanzi alla The Humpty Dumpty Position, così come al Gioco della logica di Lewis Carrol. In apertura di quel libricino, Carrol, nello spiegare ai lettori, adulti, le regole del suo gioco logico, o del gioco della logica, chiamava in causa un’osservazione che ben calza con la struttura di questo albo per bambini e che ne sottolinea l’efficacia e l’immediatezza, giacché come giustamente detto dall’autrice, Anna Cerasoli, “nel linguaggio scientifico tutte le parole sono importanti, ma alcune sono fondamentali; infatti dal loro giusto uso dipende la correttezza del ragionamento”.

Così “tutte le torte fresche sono dolci” di Carrol, diviene qui “ Tutti i gatti del quartiere sono neri”; “ alcune torte fresche sono dolci” diventa “non tutti i gatti del quartiere sono neri”; infine “nessuna torta fresca è dolce” diviene “tutti i gatti del quartiere sono bianchi”, o no? E poi, che succede se dalla campagna arrivano anche dei gatti rossi? Mi sono persa nei garbugli logici fatti di rimandi e varianti lessicali. Il mondo è pieno zeppo di cose, di oggetti, di uomini, di gatti e ognuna di queste cose contiene un attributo, infatti alcuni gatti sono neri, altri bianchi, altri magri e altri grassi, specie se sono ipernutriti di croccantini. Sarà bene che io ritorni alla lettura di Gatti neri gatti bianchi, scioglierò qualche garbuglio in merito. Questo è certo!

Titolo: Gatti neri gatti bianchi
Autore: Anna Cerasoli AnnaLaura Cantone
Editore: Editoriale Scienza
Dati: 2011, 48 pp., 12,90 €

Della guizzante sardina e dell’arancione intenso e profumato dell’arancia

Inventario illustrato del mare - Emmanuelle TchoukrielNe avevamo già parlato di Emmanuelle Tchoukriel, della sua penna Rotring e dei suoi acquerelli, ma non possiamo fare a meno di riproporvi altri due suoi magnifici albi, inventari, per la precisione. E se l’inventario degli animali ci aveva incantato, quello del mare e quello dei frutti e degli ortaggi ci convincono del tutto: si dovrebbero regalare tutti ai nostri bambini, specie quelli in età scolare, perché insieme acquisiscono la valenza enciclopedica che tanto cara fu alle storie naturali del Secolo dei Lumi.

Nell’inventario illustrato del mare non si punta tanto al censimento completo delle specie marine (animali e vegetali). Come sarebbe possibile, del resto, se le specie catalogate dal Census of marine life sono 250 000, e ancor più, come sarebbe possibile visto che sarebbero ancora ben 75 000 le specie sconosciute ancora da censire? Quel che conta in questo inventario è sottolineare la biodiversità di un mare a noi noto e familiare (e spesso molto trascurato) qual è il Mediterraneo. Da sub dilettante, Emmanuelle Tchoukriel, specializzata nel disegno scientifico, si è immersa nelle sue acque e ha osservato 100 delle specie che lo popolano tra pesci, crostacei, molluschi, coralli, alghe e meduse.

Inventario illustrato della frutta e degli ortaggi - Emmanuelle Tchoukriel

Leggendo e guardando scopro che la posidonia non è un’alga, bensì una pianta, giacché possiede radici, fusto, foglie e fiori. E frutti! Sono i frutti della posidonia quelle bacche verdi simili a olive che talvolta si vedono galleggiare leggere tra le onde. Così come scopro che l’autrice è riuscita a ritrarre perfettamente lo sguardo intenso del polpo, e la sua intelligenza mi incanta.

Ogni ritratto è accompagnato da una descrizione di Virginie Aladjidi che riesce a coniugare alla perfezione i dati scientifici con le curiosità dando un tono narrativo e leggero a informazioni interessanti.

L’inventario dei frutti e degli ortaggi, invece, si concentra su un suggerimento e un’intenzione: spingere chi legge alla curiosità del gusto e dell’assaggio. Per questa ragione si è voluto privilegiare la resa tattile e cromatica dei frutti senza rispettare la loro grandezza naturale. Per dare al giovane lettore un’idea dell’habitat in cui vivono le varie specie rappresentate, questi inventario classifica i frutti e gli ortaggi per aree di colore. Si incomincia con l’arancione di carote, zucche e arance, per passare al rosso, in cui ci imbattiamo in un merlo che incrocia i nostri occhi soddisfatto della ciliegia appena raccolta che tiene stretta nel becco; e poi al viola, al verde in cui a tener compagnia alla Actinidia deliziosa, ricchissima di vitamina C (meglio conosciuta come Kiwi) c’è l’uccello simbolo della nuova Zelanda che proprio con quel frutto ha in comune forma, consistenza e colore del piumaggio, il Kiwi appunto.Si passa poi ai frutti e agli ortaggi gialli, poi a quelli bianchi e infine al marrone. Di questi frutti si sente quasi il profumo, si legge nell’introduzione, cosa aspettate ad assaggiarli?


Titolo: Inventario illustrato del mare
Autore: Emmanuelle Tchoukriel e Virginie Aladjidi
Editore: L’Ippocampo Junior
Dati: 2011, 80 pp., 12,00 € 

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Titolo: Inventario illustrato dei frutti e degli ortaggi
Autore: Emmanuelle Tchoukriel e Virginie Aladjidi
Editore: L’Ippocampo Junior
Dati: 2011, 80 pp., 12,00 €;
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Alla ricerca dell'odore perduto

“l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’immenso edificio del ricordo.” (Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto)

L’aroma della madeleine, del pezzetto di madeleine, che Marcel percepisce bevendo il tè fa in modo che immagini, persone, giardini, fiori del passato assumano consistenza e forma nella sua memoria investendo di significati profondi ed emozioni intense anche il proprio presente. Può un semplice profumo, un odore, suscitare tali emozioni? Sì, certamente può, e le parole di Proust ne sono un esempio lampante. Per cogliere gli odori, imprimere particolari profumi nella nostra memoria, includerli nel nostro personale bagaglio di ricordi è necessario, però, educare il nostro naso, affinare il nostro più indipendente senso. E iniziare da bambini.

Annusare e scoprire, far chiarezza nella moltitudine di odori (lievi o pungenti se si vive in campagna, forti e ingombranti se si vive in città) non è compito semplice per noi come per Susy e Giacomo, i due bambini protagonisti di questo manuale da apprendisti scienziati di Editoriale Scienza, che con l’aiuto di Gianna, una fulva volpe esperta in campo di odorato, in dieci tappe acquisiranno tutti gli elementi utili a scoprire il mondo dei profumi e, ebbene sì, anche dei cattivi odori.

Il coloratissimo albo di Pascal Desjours, illustrato da Frédéric Bénaglia, si rivolge a bambini tra i 5 e i 7 anni, appena prima che vadano a scuola o da poco scolarizzati, perché è proprio questa la fase in cui il non saper ancora leggere li induce ad attribuire a ciò che avviene loro intorno poteri magici o sovrannaturali: la rosa profuma soavemente perché la fata dei fiori è appena passata di lì e ha riposato un po’ tra i suoi petali…

Le dieci esperienze e i dieci giochi sul tema dell’odorato trovano risposte concrete alle domande dei bambini partendo dunque dalla loro capacità di sorprendersi dinanzi alle cose del quotidiano.

Ogni attività si svolge in tre parti: una brevissima avventura di Giacomo o Susy stimola il “perché?”; un’esperienza suggerita, con tanto di elenco dei materiali necessari e spiegazioni passo passo (per i bambini così come per i genitori) e, infine, il gioco, per sperimentare quanto appena scoperto.

Per il mio naso curioso non poteva essere che stuzzicante la questione degli odori nascosti: come mai le erbe raccolte dal nonno appena raccolte non profumavano così intensamente come quando le si usa per fare una fumante tisana? Ebbene, con l’esperienza si comprenderà come l’acqua, evaporando e disperdendosi nell’aria, porti con sé una parte del profumo delle erbe del filtro, raggiungendo le narici. Che poi è lo stesso principio per cui in certi film d’avventura per ragazzi è sempre bene mettersi sottovento per evitare che pericolosi lupi o orsi fiutino la nostra presenza…

Un libro divertente e stimolante che consiglio ai bimbi curiosi e agli adulti altrettanto curiosi di scoprire come funziona il nostro senso più indipendente; quello che è alquanto difficile, direi impossibile, imbrigliare.

Titolo: Annusa e scopri
Autore: Pascal Desjours, Frédéric Bénaglia
Editore: Editoriale Scienza
Dati: 2010, 72 pp., 12,90 €

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Dove vai se la filosofia non ce l'hai? Parola di neuroscienziato

“Più che di naturalizzare la fenomenologia, c’è bisogno di fenomenologizzare le neuroscienze”. Tradotto in parole povere, i tempi sono pienamente maturi perché le scienze empiriche includano senza più ritrosie integraliste e riduzioniste il contributo della filosofia e delle discipline umanistiche, spesso considerate portatrici di teorie suggestive ma prive di fondamento. Dolci suoni, parole di grande portata pronunciate da Vittorio Gallese, neuroscienziato, nel suo intervento alle giornate ascolane di psichiatria. Non lasciamoci spaventare dai termini. La neuroscienza è quella disciplina che cerca di sapere tutto, ma proprio tutto, del nostro cervello e del funzionamento del sistema nervoso centrale per capire come questo ingranaggio complesso ci faccia essere ciò che siamo, dall’alzare un sopracciglio al movimento di un muscolo agli innumerevoli impulsi cinetici e oltre, molto oltre. La neuroscienza, infatti, è cognitiva quando pone questo cervello in relazione alla mente, alla coscienza, al corpo, al mondo (ambiti per eccellenza della ricerca filosofica), indaga che cosa è l’intersoggettività, come si capisce l’altro, in cosa consiste la nostra competenza sociale, per poi cercare di decifrare cosa fa dell’essere umano una miscela di fenomeni, in gran parte ancora ignoti. Intanto qualcosa di fondamentale è accaduto. I neuroni a specchio scoperti nel 1992 dal team di ricercatori dell’università di Parma, tra cui lo stesso Gallese (team coordinato da Giacomo Rizzolatti), sono neuroni che ‘risuonano’ e si attivano quando compiamo una certa azione ma soprattutto quando, restando fermi, osserviamo un nostro simile compiere un’azione. Vedere non è quindi solo registrare passivamente comportamenti, ma già da subito simularli a livello pre-conscio. Il neurone dell’osservatore “rispecchia” il comportamento dell’osservato, come se stesse compiendo a sua volta l’azione. Si potrebbe dire che il neurone è intersoggettivo di suo.

All’inizio del ‘900, il filosofo Martin Buber affermò  che ‘In principio è la relazione’: siamo o no alla quadratura del cerchio? L’intersoggettività non è più una bella teoria ma, innanzitutto, un fenomeno chimico nel nostro cervello. Tutto questo cambia e in parte sovverte i consueti paradigmi della ricerca e fa cadere rigidi steccati  tra campi del sapere che non si erano incontrati. La scoperta di tali neuroni, tra le tanti implicazioni, sta a dimostrare che i filosofi hanno dalla loro parte la ragione, quella  che intuisce ciò che poi la scienza verifica e dimostra: l’intersoggettività è ontologicamente il fondamento dell’essere; la fenomenologia può portare un contributo alle scienze empiriche. A che servono altrimenti gli esperimenti di laboratorio su scimmie e primati, sia pure riuscitissimi, se rimangono confinati a un ambito ultraspecialistico e ripiegato ermeticamente su se stesso? “L’intersoggettività è fondante per capire la soggettività e come essa si deteriori nella relazione psicotica”, spiega Gallese e aggiunge: “come affrontiamo questa tematica rispetto al sistema cervello? Se non l’affrontiamo, il cervello si riduce a una sorta di scatola di meraviglie autoreferenziale”. E anche il cervello dei neuro scienziati, sembra suggerire Gallese, si restringe se non si immette nel mondo che lo alimenta. “Quel dato cervello ha assunto quella configurazione dal punto di vista filogenetico e ontogenetico, cioè individuale, in quanto legato a doppio filo al corpo e alla carne, a sua volta legati a un mondo con precise leggi fisiche e culturali, metafore linguistiche”. Non siamo una sommatoria di organi sparsi e irrelati, né anime vaganti calate in corpi e mondi. Siamo una congerie di percezione, azioni, intelligenza. E in realtà anche parlare di neuroni a specchio è una metafora ad effetto perché non funzioniamo da specchio riflettente delle azioni altrui, ma le metabolizziamo e diamo risposte personali. Gli ultimi esperimenti raccontati da Gallese, fatti da gruppi di ricerca dell’università di Lione e di Chieti, stanno provando che la dimensione autistica della schizofrenia è dovuta proprio a un deficit neuronale di sintonizzazione col mondo. Volgarizzando, il meccanismo intersoggettivo che naturalmente possediamo in dote  nel nostro cervello non funziona bene. I ricercatori dell’università di Chieti hanno studiato 24 pazienti schizofrenici a sei mesi dal primo episodio di esordio psicotico sottoposti a farmaci antipsicotici di nuova generazione. Hanno cercato di verificare nei pazienti sensazioni sulle loro parti del corpo e hanno constatato che mancano di un senso coerente del sé corporeo e non sono spinti al movimento; in loro sembra carente il meccanismo neuronale di risonanza motoria.

“L’intersoggettività è prima di tutto intercorporeità, su questo aveva visto lungo un altro filosofo, Merleau Ponty – spiega Gallese – Il ruolo fondamentale della relazione intersoggettiva nella costruzione della soggettività è il movimento. Il contatto con gli altri”. L’altro di fronte a noi, diviene immediatamente in condizioni non psicotiche alter ego, “condivide con noi l’umana posizione di eccentricità e questo, con buona pace dei cognitivisti, non richiede per forza una dimostrazione razionale perché grazie ai meccanismi di rispecchiamento e simulazione, l’altro è vissuto come altro da sé”. E qui si scopre che i filosofi e la fenomenologia tornano utili, anzi fanno da guida, indicano la rotta: “Ciò che ci rende chi siamo non è solo il possesso di meccanismi nervosi coordinati, ma anche un percorso storico individuale, la dimensione storica dell’essere nel mondo rimasta fino ad ora inesplorata dalla ricerca neuro scientifica”. Visto che nel cervello possediamo un meccanismo neuronale di risonanza motoria che lega chi guarda a chi fa, e visto che c’è una tradizione culturale, filosofica, psicopatologica, che si è occupata dell’intersoggettività della condizione umana, allora “questa tradizione va considerata dal neuro scienziato perché gli consente di porsi le domande giuste e correlarle ai suoi esperimenti. Il mito della scienza è che debba dare risposte giuste, un po’ è vero ma a quali domande?”. Per attivare nuovi percorsi di ricerca in ambito psichiatrico e psicoterapeutico, occorre dare ascolto a discipline che vengono da molto lontano e focalizzare sempre più l’attenzione sull’unicità della dimensione individuale, anche dal punto di vista nosografico e diagnostico. L’uomo non è le sue sinapsi né i suoi neuroni, è una “unità integrata, un uomo che agendo sente emozionandosi”. Il particolarismo delle scienze empiriche può far perdere di vista che “i neuroni a specchio sono solo la punta di un iceberg ancora tutto da scoprire. Un neurone non ha emozioni, intenzioni, non ha scopi, non ha affetti, non si spaventa e ciò che del mondo conosce è una manciata di ioni, sodio, calcio, potassio, cloro. È l’individuo che prova emozioni e angoscia, lo sappiamo”. Allora cosa ci dicono le neuroscienze dopo duemila e passa anni di cultura filosofica? Probabilmente che nessuno si può più blindare dietro il proprio sapere specialistico, ma occorre dialogare. “É  auto consolatorio dire che la complessità della condizione umana è irriducibile all’attività di pochi neuroni”. Niente trincee, quindi.

“Le neuroscienze rimettono in discussione concetti psicopatologici, nosografici, filosofici che molti ritengono scontati”. La loro missione nel prossimo futuro sarà aprire la strada a “terapie farmacologiche tagliate su misura del singolo individuo che esprime un certo disagio psichico”, esito della sua attività cerebrale calata nella sua storia umana di creatura sociale e linguistica. Il riduzionismo non giova, non porta da nessuna parte, è un binario morto. La multidisciplinarietà, d’altra parte, non è una pratica per dare una patina di cultura a un’attività di laboratorio, o per “abbellire il risultato della ricerca empirica con qualche spruzzata filosofica che la renda più appetibile”, e neanche per verificare dal punto di vista empirico l’esattezza di una teoria filosofica. È solo che lo studio della condizione umana è un tantino articolato e richiede un contributo allargato delle scienze umanistiche, filosofia, antropologia, sociologia, psicologia. Voltarsi indietro, anche molto indietro, si può e si deve per costruire il futuro di un ‘uomo nuovo’, annunciato da Giordano Bruno che da epistemologo ante litteram, non a caso, ci ha lasciato nella sua ricca produzione questo monito: “Se questa scienza che grandi vantaggi porterà all’uomo, non servirà all’uomo per comprendere se stesso, finirà per rigirarsi contro l’uomo”.

Il video integrale dell’intervento di Gallese alle giornate ascolane di psichiatria (via Psychiatry on line Italia)

Giorgio Celli, il cantore umoristico delle magie del cosmo

“La natura ha sempre ragione. Se un pesce potesse parlare preferirebbe tacere”. Un motto di spirito grande quanto una casa. Una casa magica. “La spiegazione scientifica di un fenomeno è solo la traduzione semanticamente sofisticata della spiegazione magica”. A scrutare la realtà con fervore di occhi ‘indisciplinati’ (ovvero occhi che non si chiudono al sapere esclusivo di una disciplina), tutto è magia e la natura forse parla il linguaggio dei calembours. Che straripante ricchezza di spunti viene, anche ad aprire una pagina a caso, dagli scritti di Giorgio Celli, poiché era uno scienziato magico ma anche un mago scientista, sempre dedito a rincorrere la voce segreta delle cose, rintracciare l’armonia delle sfere  di ascendenza pitagorica magari nei comportamenti degli insetti; scovare l’anima mundi degli gnostici, caduta e intrappolata nella materia, proprio tra le fusa dei gatti piuttosto che nella vita sociale dei primati; trovare corrispondenze e affinità di cui l’universo trabocca comparando magari una capsula di papavero, ‘utensile naturale’, a una saliera, utensile di costruzione umana.  Se ne è andato Giorgio Celli, e forse a quest’ora può darsi che sia in un oltretomba egizio circondato dai gatti che aveva considerato i suoi maestri silenziosi e tanto gli erano cari, o dalle api, “le più formidabili commesse viaggiatrici d’amore dei fiori”, che pure amava, o da insetti e zanzare anch’essi studiati con passione o chissà da quante altre specie. Più che in un paradiso forse sta in una specie di arca di Noè.

Etologo, entomologo, biologo ma anche ecologo, e insieme letterato, e ancora poeta e saggista, attore e autore teatrale, politico (fu parlamentare europeo per i Verdi), grande divulgatore, personalità proteiforme, d’ingegno vivacissimo e arguto, Celli è figura d’umanista integrale che racchiude in se saperi non scollegati, lontano dall’asettico professionista della scienza confinato nel suo campo specialistico.  Univa infatti una versatilità non comune a doti d’osservazione ed esplorazione della natura, il rigore abbinato a una sempre presente sensibilità estetica e a un’attitudine di fondo estatica, di chi è capace di accostarsi con stupore e meraviglia ai fenomeni naturali e culturali, alla storia della botanica come alla storia umana e a fine giornata si emoziona guardando le stelle. Disponeva di così tanti talenti che avrebbe potuto correre il rischio di disperderli; invece riuscì a incanalarli in forme originali e con una comunicazione fantasiosa ma insieme precisa ed efficace. Della sua produzione abbondantissima e multiforme, ci piace ricordare un volume del 1982 intitolato ‘La scienza del comico’ perché rende bene l’idea di questa personalità eclettica e stravagante, sempre pronta a fermare la curiosità e ad applicare l’ingegno sui più disparati campi del sapere in forme egalitarie. Il volume raccoglie articoli e brevi saggi pubblicati sulla terza pagina del ‘Resto del Carlino’ di Bologna in quegli anni, in parte rivisti e ritoccati. Il titolo inganna un po’ perché in realtà il libro ingloba il comico ma non solo. È diviso in 4 sezioni: solo la prima è dedicata alla scienza del comico; segue una parte dedicata alla ‘scienza della scienza’; quindi una che tratta di ‘scienza e fantascienza’, infine una serie di articoli su ‘la scienza veduta’.

Annota giustamente Umberto Eco, antico amico dell’autore, nella prefazione godibilissima come tutto il resto, che “il libro avrebbe dovuto chiamarsi Il comico della scienza. Perché gli articoli o brevi saggi o ‘insetti rossi’ di Celli ci parlano di una scienza che scienza è , non c’è dubbio, schidionata di fatti e di scoperte, sinfonia di storia delle invenzioni e delle intuizioni dei grandi, ma è una scienza vista a occhi socchiusi, possibilmente un bicchiere di qualche alcool in mano, lasciando cadere certi contorni più precisi. (…) Una scienza fatta di battute, aforismi, flashes, gags”. Ed è proprio così che funziona il modo d’esplorare di Celli. Che sia la scienza del comico, il ‘virus antiretorico’ di cui parlava Carlo Emilio Gadda, reagente attivo sulla fisiologia umana in forma di risata, minaccia all’ordine costituito, liberazione di tensione ed energia, caricatura, satira, o la scienza biologica a occupare la sua attenzione comprese le cantonate e gli errori scientifici (uno tra tutti: non aver dato peso per molto tempo ai piselli dell’abate Mendel da parte della comunità scientifica del tempo interessata ai massimi sistemi), Celli non rinuncia ad affrontare gli argomenti con umorismo, linguaggio immaginoso e partigianeria sempre dalla parte del paradosso. Soprattutto disorienta il suo non sottostare mai a una classificazione unilaterale in un paese che, complici le distinzioni  crociane, viaggia su due binari: o scienza o arte. E invece interpreta la scienza inserendola nell’ambito delle scienze umane e cogliendone l’aspetto immaginifico, e  l’estetica con i parametri della scienze fisiche. Non disgiunge mai la cultura umanistica da quella scientifica, non affronta mai i temi scientifici senza un qualche riferimento letterario, poetico o mitologico: parla di frutti e spunta Gozzano, di fiori e cita Palazzeschi; della futurologia e dell’Adamo prossimo venturo e cita il poeta John Donne; parla di animali e li associa ad Amleto. Spiega la fantascienza con la scienza, ma soprattutto, cosa meno prevedibile, la scienza con la fantascienza.

Si possono gustare piccoli capolavori di scrittura e di fascinazione didattica: come quando parla della natura come di “un ufficio brevetti prodigioso e a quanto sembra inesauribile” e cita tra gli altri, “il fanalino a luce fredda delle lucciole, la siringa ipodermica con cui la vespa, in un bel pomeriggio d’estate, inocula nella nostra mano incauta il veleno, il paracadute dei pesci volanti, le pile elettriche delle torpedini, che per fare solo qualche esempio, ci aprono un primo spiraglio sulle biotecniche degli organismi”.  Se le invenzioni dell’uomo sono imitazioni della natura, poiché anche l’uomo è natura “imitandola plagia se stesso. Le invenzioni dell’uomo sono delle tautologie organiche”. Sono pagine meravigliose quelle in cui l’entomologo umanista affronta le vite di scienziati eccentrici: la storia umana e l’avventura scientifica di Fabre anche detto l’Omero degli insetti, considerato il ‘bardo dell’entomologia’, o quella di Evaristo Galois che Celli definisce ‘il Rimbaud della matematica’, perché fu un genio della matematica morto a soli 21 anni; oppure quando racconta il modo in cui William Harvey ha scoperto la circolazione del sangue. Le scoperte presuppongono proprio quelle credenze magiche che vogliono debellare. Accade che per Harvey  l’uomo è un microcosmo che rispecchia il macrocosmo, secondo le teorie astrologiche del suo tempo, e allora “il cuore era così il sole del sistema tolemaico del corpo, e il percorso del sangue nelle vene e nelle arterie era l’equivalente fisiologico del moto dei pianeti lungo le loro orbite astronomiche”. Da qui la splendida deduzione : “la scienza è una magia estroversa, che si cerca e si proietta nel mondo e William Harvey,  ‘visionario concreto’, ha saputo fare della magia il suggeritore nascosto dell’esperienza”. In questi scritti,  ha premura di sottolineare che le scoperte della scienza sono innanzitutto invenzioni, che il mondo esiste in quanto grande proiezione, che i cosiddetti ‘inventori’ “attraverserebbero “come in estasi ampi territori di lavoro mentale inconscio, combinando il sillogismo e la veggenza”. Di più: ‘l’uomo capisce il cosmo perché lo fa”. Il fondamento della scienza è una sorta di allucinazione, la base della scienza è paradossalmente la fantascienza, ma la scienza è “una fantascienza economica o se preferite povera”.  In ogni rivoluzione scientifica all’inizio c’è  “qualcosa di stravagante, di delirante” o per l’appunto di fantascientifico: come quando si smise di credere a Tolomeo e la terra cominciò a girare.

Senza immaginazione non c’è scienza, per Celli, ed ecco perché i campi del sapere tradizionalmente separati li considera affini. nella paranoia rintraccia l’atteggiamento mentale fondante la ricerca dello scienziato. Stesso atteggiamento ha la fantascienza ma questa è introversa e non ha esigenze pratiche; la scienza invece è pragmatica, “immagina spesso insieme la teoria e il modo di verificarla”. Mai nessuno ci aveva detto con tanta evidenza che la scienza è un delirio, l’esercizio di un’immaginazione paranoide che a volte funziona, un relitto estratto dall’inconscio di un sogno mitologico. Una scienza vicina a quella degli gnostici,  ispiratori dell’immaginazione attiva di Carl Gustav Jung, nel senso indicato pure dai surrealisti e da Breton, ovvero “un nuovo tipo di lavoro mentale, fondato, io penso, su un uso molto particolare dell’immaginazione”. Celli parla di una “gnosi di Princeton”, per indicare un modo di esercitare l’immaginazione da parte della comunità scientifica statunitense, convinto che l’oggettività sia un’utopia finale e necessaria di ogni scienza, “ma resta un organismo filosofico chimerico”.

Per  il professore di entomologia all’università di Bologna capace di spaziare con agilità funambolica tra Pitagora e Nietzsche, gli gnostici e Darwin,i piselli di  Mendel e il libro totale di Mallarmé , è sempre necessario raccordarsi ai poeti perché le loro intuizioni liriche sono una profezia scientifica che poi si avvera. Così i versi del poeta metafisico inglese John Donne (“Nessun uomo è un’isola; la morte di ogni uomo mi diminuisce”), sono per l’alchimista, mago, polimorfo Celli un chiaro monito: “Se è vero, come l’ecologia ha dimostrato, che ogni cosa influisce su tutto, viceversa, ogni animale, ogni pianta che cancelliamo per sempre attorno a noi ci rende più poveri, porta via con sé un poco delle nostre possibilità reali di sopravvivenza”.

 

La Scienza del Comico
di Giorgio Celli
€ 8.00 – Calderini, 1982