Strategia K. Teatro multimediale a Milano

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Nei giorni dell’arte alla portata di tutti, quella dell’edizione milanese dell’Affordable Art Fair (dal 5 al 9 marzo), la Zona K di Via Spalato presenta una performance teatrale della compagnia Dehors/Audela intitolata Strategia K: un’opera multimediale frutto di stratificazione e di sedimentazione tra linguaggi. È anche un progetto di ricerca fotografica a più tappe e un corpus video artistico in divenire.

Riportiamo di seguito il comunicato stampa dell’evento.


STRATEGIA K
6, 7 marzo 2014
Ore 21
ZONA K
Via Spalato 11, 20124 Milano +39 02 97378443

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E’ in dubbio la sua fertilità. Forse non potrà procreare. Fino ad ora non aveva considerato il problema. Basta che un elemento non funzioni per destabilizzare l’insieme.

Supplire l’eventuale assenza di un figlio. Prendersi cura di chi, poiché nato, è destinato a perire. La possibilità di non generare un’altra vita, un altro scheletro.

Ossa di vacca, emblema del nutrimento primario: il latte. Incontro tra corpo e ex corpo. L’uno inerte nella sostanza, l’altro inabile rispetto alle sue naturali funzioni preposte, si incontrano, dialogano muti.

Un cortocircuito inaspettato provoca lo scarto tra mimesi e realtà. Il rischio è l’opportunità d’essere una macchina celibe.

Strategia K rielabora la storia dell’isteria (uno dei più complessi paradigmi del problema mente-corpo), patologia che si credeva un tempo legata a problemi di procreazione, ricollegandosi al “reale” problema di presunta infertilità della performer in scena e creando un’inedita partitura fisica attingendo da fonti extra-teatrali come l’etologia, come l’Iconographie photographique de la Salpêtrière, un serbatoio visionario e ossessivo di spettacolarizzazione del dolore ante-litteram, o ancora come il pensiero di Didi Huberman (soprattutto il suo L’invenzione dell’isteria).

La spettacolarizzazione del dolore e del dramma privato, oggi approdata a livelli vertiginosi, ha origini più antiche di quanto si pensi: a fine Ottocento, le presunte isteriche della Salpêtrière venivamo messe letteralmente in scena, fatte esibire davanti a un pubblico di medici, costrette ad avere degli attacchi e premiate con un applauso finale.

Il foyer di Zona K ospiterà nei giorni della performance parte del nostro lavoro.

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concept DEHORS/AUDELA
azione scenica ELISA TURCO LIVERI
drammaturgia audiovisiva SALVATORE INSANA
con le voci di GIOVANNA BELLINI, LUCA BONDIOLI, VANIA YBARRA
sound ALBAN DE TOURNADRE
light design GIOVANNA BELLINI
tecnico del suono MARCO DE TOMMASI
costumi OLIVIA BELLINI
produzione COMPAGNIA DEL META-TEATRO
co-produzione DEHORS/AUDELA – LYRIKS
con il sostegno di ELECTA CREATIVE ARTS e ASS. CULT. RESINE

Dehors/Audela
dehorsaudela@gmail.com

Portateci a Torino. Crowdfunding contro la crisi

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Mirella Nania, Vita Nova, 2012
Mirella Nania, Vita Nova, 2012

In un periodo di profonda e perdurante crisi finanziaria, come quello in cui ci troviamo gettati, capita che, quasi allo scadere del tempo disponibile, ci si trovi a riconsiderare l’effettiva realizzabilità di un progetto che, preventivamente, si considerava certo e inattaccabile. Spariscono i vecchi sponsor e non se ne trovano di nuovi, i finanziamenti promessi tardano a concretizzarsi e i fondi in cassa sono un ricordo. In situazioni come queste, o ci si da per sconfitti, o ci si intestardisce, magari mossi dalla convinzione che il succitato progetto è realmente valido e non merita di venire accantonato in attesa di tempi migliori.

Anna Capolupo, Ordine, 2010
Anna Capolupo, Ordine, 2010

Quest’ultima reazione, orgogliosa e combattiva, è quella che ha spinto l’associazione culturale no profit Oesum Led Icima, che si occupa dell’organizzazione e promozione degli eventi artistici del MACA (Museo Arte Contemporanea Acri), a lanciare la sua prima campagna di crowdfunding. La finalità della raccolta fondi è quella di portare a conclusione la seconda annualità del progetto espositivo itinerante Young at Art, attraverso il quale, il museo di Acri, in Calabria, promuove il lavoro di un gruppo di giovani talenti della scena contemporanea regionale. Selezionati a inizio 2013 tra oltre 100 candidati, i 12 artisti che partecipano alla seconda edizione del progetto Young at Art (Anna Capolupo, Maurizio Cariati, Salvatore Colloridi, Marco Colonna, Giovanni Fava, Giuseppe Guerrisi, Salvatore Insana, Giulio Manglaviti, Domenico Mendicino, Mirella Nania, Gregorio Paone e Giusy Pirrotta) hanno già esposto le loro opere al MACA, tra l’aprile e il maggio scorsi e, successivamente, all’interno della VII edizione della Biennale d’arte contemporanea “Magna Grecia”, riscuotendo, in entrambi i casi, un buon riscontro di pubblico.

Giusy Pirrotta, Chroma (still from video)
Giusy Pirrotta, Chroma (still from video)

«Ma non è nulla in paragone al numero di visitatori e appassionati d’arte che si daranno appuntamento a Torino a partire dal 6 novembre – si legge nel comunicato stampa inviato per promuovere la campagna di crowdfunding –. Noi intendiamo intercettare più pubblico possibile, perché siamo convinti del valore dei 12 talenti artistici che compongono l’edizione 2013 di  Young at Art. Per questo motivo vogliamo portare la mostra itinerante nel cuore dell’azione, in uno spazio appositamente dedicato a loro all’interno di Paratissima, la più importante manifestazione off di Artissima che, nel 2012, ha richiamato a sé 100.000 visitatori».

Salvatore Insana, Space Time Lapse_out of this time
Salvatore Insana, Space Time Lapse_out of this time

L’associazione, allora, ha deciso di appoggiarsi alla piattaforma Kapipal, dando vita a una campagna di raccolta fondi che ha già visto qualche contributor farsi avanti, probabilmente attirato dai premi che sono stati messi a disposizione per le donazioni più generose: dai cataloghi delle tante mostre del MACA, sino alle coloratissime sculture in vetro realizzate dall’artista Silvio Vigliaturo, di cui il museo ospita un’ampia collezione. «Partecipare alla campagna di crowdfunding è facile, veloce, sicuro al 100% e lo si può fare a partire da un contributo minimo di 5 dollari andando al seguente link: http://www.kapipal.com/young-at-art».

Giovanni Fava, Senza titolo, 2008
Giovanni Fava, Senza titolo, 2008

Si tratta di un esperimento a cui l’associazione Oesum Led Icima si approccia con fiducia. « Crediamo fermamente nel progetto Young at Art, ed è per questo motivo che chiediamo un vostro aiuto, convinti che i 12 talenti che vi prendono parte meritino di essere visti e conosciuti da un pubblico vasto quanto può essere quello composto dai visitatori di Paratissima, e che essi possano dare un’immagine di una Calabria nuova, bella e ricca di creatività ».

info: http://youngatart2013.com; info@museomaca.it

Mike Kelley in mostra al Hangar Bicocca di Milano

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Domani, al Hangar Bicocca di Milano verrà inaugurata la retrospettiva Eternity is a Long Time, che raccoglie una serie di istallazioni di Mike Kelley (1954 – 2012), uno degli artisti più importanti degli ultimi trent’anni.

Tra gli eventi collaterali della mostra, ci sarà una rassegna cinematografica di B-movies, una delle grandi passioni e tra le maggiori fonti di ispirazione dell’artista americano.

Tra i grandi classici in rassegna segnaliamo Barbarella, Ultimatum alla Terra, e La cosa dall’altro mondo, a testimonianza dell’anticonvenzionalità che ha contraddistinto l’intera carriera artistica di Kelley, sempre vicino alla cultura pop, punk e alternative (è stato autore della copertina di Dirty dei Sonic Youth, per dire).

Info

Questo non è un museo, forse.

Centre d'Art Contemporani Fabra i Coats

A Barcellona, da alcune settimane, esiste un nuovo museo d’arte contemporanea. Il Centre d’Art Contemporani Fabra i Coats si presenta come un progetto ambizioso e innovativo, che a prima vista sembra non aver rinunciato alle sue velleità rivoluzionarie nonostante i tagli dei fondi e le polemiche che ne hanno accompagnato la lunga e travagliata nascita.

Centre d'Art Contemporani Fabra i Coats

L’ubicazione, all’interno della dismessa e periferica fabbrica tessile Fabra i Coats, è tanto l’esito di questo percorso tormentato quanto una delle caratteristiche più innovative del centro. Pensato inizialmente per occupare un edificio prossimo alla centralissima Rambla, spostato in seguito nell’abbandonato Canodromo – riconvertito in spazio espositivo con fondi pubblici e per la gestione del quale un famoso storico dell’arte svizzero percepiva uno stipendio da capogiro fin dal 2009, quando sul luogo l’unica traccia visibile del futuro museo erano poche impalcature -, il nuovo centro d’arte contemporanea è approdato infine a Sant Andreu, un quartiere periferico in cui si respira aria di paese e nei cui bar non si vedono ancora menù in inglese. Lontano dai classici percorsi turistici – il bus turistico che crea code interminabili in plaça Catalunya non prevede nessuna fermata nella zona – il museo è un tentativo di decentralizzare l’offerta culturale cittadina, e con essa l’epicentro di un processo di riqualificazione urbana che a Barcellona ha nel turismo uno dei suoi elementi propulsori e che fino ad ora ha preso di mira soprattutto il centro della città.

Come è noto, però, – e come si vede bene in alcuni quartieri centrali della capitale catalana – il rischio della riqualificazione è sempre la gentrificazione, ovvero quel fenomeno che fa sì che il miglioramento urbano di un’area della città non sia a beneficio dei suoi residenti, i quali si vedono invece costretti a lasciare i loro appartamenti ad inquilini più abbienti, perché non possono più permettersi di pagare gli affitti cresciuti a ritmo esponenziale.

Centre d'Art Contemporani Fabra i Coats

Per quanto sia difficile predire quale opera di riqualificazione si trasformerà in un caso di gentrification, il centro d’arte Fabra i Coats sembra essere stato concepito come lo strumento di un miglioramento urbano che deve rivolgersi innanzitutto ai residenti del quartiere popolare di Sant Andreu. Infatti, mentre una parte della ex-fabbrica tessile è stata adibita a spazio espositivo, un’altra ala dell’edificio è stata inserita nel circuito delle Fàbriques de Creació di Barcellona. Le Fàbriques sono un insieme di antichi recinti industriali, spesso situati in quartieri periferici, oggi restaurati e dotati di laboratori di creazione pensati per offrire ai cittadini spazi e attrezzature che permettano la produzione di arte e cultura in loco. Anche se a Sant Andreu le due aree del recinto industriale non si sono ancora pienamente integrate – dopo un’inaugurazione congiunta il Centre d’Art Contemporani, temporaneamente gestito dal MACBA, è l’unico spazio attualmente fruibile con regolarità e non dispone di informazioni sul programma dell’adiacente Fàbrica – il complesso Fabra i Coats, nel riunire fianco a fianco luoghi di creazione e luoghi di fruizione dell’arte, aspira evidentemente a fornire agli artisti locali un accesso privilegiato ai circuiti di distribuzione internazionale dell’arte, che altrimenti rimarrebbero loro preclusi.

Centre d'Art Contemporani Fabra i Coats

Se il contenitore ha subito voluto presentarsi come innovativo, il contenuto non è da meno: il centro d’arte contemporanea ha aperto i suoi battenti offrendo ai visitatori un’esposizione che non è un’esposizione. Nell’unica sala finora aperta al pubblico, infatti, è visibile non un insieme di opere finite e fatte per essere esposte, ma tracce di performances che hanno avuto o che avranno luogo all’interno della fabbrica, e alcuni video che riflettono sulla figura ed il ruolo dell’artista nella società contemporanea. Con questo primo, atipico progetto – il cui titolo Això no és una exposició d’art, tampoc (questa non è un’esposizione d’arte, nemmeno) ricorda quello della (non)mostra Esto no es una exposición, in cui al visitatore era permesso scegliere, tra gli oggetti esposti, quelli che trattavano temi di suo interesse, e portarli con sé per poterne fruire in un altro contesto – il nuovo museo catalano vuole proporre un’alternativa alle forme canoniche di distribuzione e fruizione dell’arte, tra le quali la più comune è l’esposizione, che consiste in un insieme di opere riunite nel tentativo di sviluppare un discorso o una tesi, e raccolte a tal fine in un luogo in cui possono essere solamente osservate .

Centre d'Art Contemporani Fabra i CoatsSecondo un’interpretazione più radicale, però, la non-esposizione organizzata nella fabbrica Fabra i Coats può essere letta come una messa in questione non solo dei modi di fruizione delle opere, ma dell’idea stessa di opera come prodotto stabile e finito, che viene offerto da un artista ad un pubblico perché quest’ultimo ne usufruisca come mero spettatore. Il “tampoc” del titolo – confessa in effetti il curatore – allude al “même” de La mariée mise à nu par ses célibataires, même di Duchamp, opera emblematicamente mai portata a termine, e a confermare questa ipotesi interpretativa radicale interviene la scelta della performance, una pratica artistica sorta negli anni Settanta proprio con la finalità di dar forma ad una creazione effimera, che nasce dalla collaborazione di artista e pubblico e che costituisce un evento non ripetibile.
Creazione e fruizione, artista e pubblico, nel centro d’arte contemporaneo, sono più che mai indispensabili l’uno all’altro, anzi si mescolano fino a diventare indistinguibili nell’opera stessa. Speriamo che anche i due lati della fabbrica non rimangano separati troppo a lungo.
Fino al 27 gennaio 2013
Carrer de Sant Andrià 20, 08030 Barcelona

Istruzioni per l'uso: non contemplare!

Urban Quilombo © Sebastián Liste

“La fotografia è un’arte.” Probabilmente nessuno di noi avrebbe qualcosa da obiettare di fronte a una tale asserzione. La storia, in effetti, la conferma: già nella prima metà del XX secolo le fotografie hanno sostituito i dipinti sulle pareti di alcune gallerie d’arte, e i fotografi sono diventati artisti a tutti gli effetti quando le loro stampe da negativo sono state ammesse nel santuario dell’arte contemporanea, il MOMA.

Freedom Fighters © Johann Rousselot/ Signatures

Chi decide, però, quali fotografie sono arte e quale fotografo è un artista? Sul finire degli anni Settanta, negli USA, alcuni gruppi di fotografi e teorici della fotografia hanno contestato l’autorità, ai tempi pressoché assoluta in questo campo, del MOMA. Questi nuclei dissidenti sostenevano che la vera fotografia artistica non fosse quella formalista e apolitica glorificata dal museo newyorchese, ma quella postmoderna, caratterizzata da immagini con un chiaro contenuto sociale, sempre accompagnate da un testo che ne chiarisse ulteriormente il contesto storico. La fotografia documentaria, insomma, sarebbe dovuta diventare il modello di una nuova arte fotografica politicamente compromessa.

Il Visa pour l’Image di Perpignan è senza dubbio il festival di giornalismo fotografico più noto a livello europeo. Ogni anno, nel mese di settembre, diversi edifici storici della cittadina francese si trasformano in musei, e ospitano i lavori di numerosi fotografi più o meno noti a livello internazionale. La possibilità di visitare gratuitamente tutte le mostre crea lunghe code in cui si mescolano fotografi dilettanti, professionisti e semplici curiosi delle più diverse provenienze e fasce d’età.

Anche se il giornalismo fotografico e la fotografia documentaria sono due pratiche teoricamente distinte – la seconda, ad esempio, si serve spesso di immagini costruite che sono rigorosamente vietate nella prima -, a Perpignan, dove il contenuto sociale e la valenza politica dell’immagine sono gli indiscutibili protagonisti del festival, è difficile non pensare all’insegnamento del postmodernismo americano.

The Marsh Arabs of Iraq © Nik WheelerD’altra parte, nei ventisette reportage fotografici presenti quest’anno – che trattano sia i fatti più discussi dai media mondiali sia quegli eventi che tanta stampa internazionale ignora sistematicamente perché non fanno notizia – la fotografia non è mai concepita in senso formalista come mezzo autosufficiente: ogni esposizione è infatti introdotta da un testo che si propone di contestualizzare con precisione le immagini e chiarificare le dinamiche politico-economiche che sono all’origine degli avvenimenti rappresentati. Le didascalie al di sotto di ogni fotografia sono un ulteriore invito ad un rapporto più cognitivo che contemplativo con il contenuto visuale rinchiuso nei bordi della cornice.

Parafrasando un’esponente di spicco del postmodernismo fotografico statunitense, Martha Rosler, si tratta di poche immagini che, a differenza di molte altre, anziché esortare alla contemplazione del mondo-come-spettacolo obbligano a riflettere sulla responsabilità sociale ed esortano all’azione. Se dovessimo credere a quei gruppi di fotografi critici nordamericani che negli anni Settanta si opposero al formalismo dominante, a Perpignan avremmo a che fare, una volta tanto, con vera arte fotografica.

North Korea © Pedro Ugarte & Ed Jones

Post Scriptum. Poiché i ventisette documentari fotografici trattano ognuno un tema diverso, abbiamo deciso di non tentare di riassumerne qui in poche righe i contenuti – che sono reperibili nella sezione esposizioni della pagina web del festival -, con un’operazione che sarebbe l’esatta antitesi della necessità della contestualizzazione chiara degli eventi affermata sopra.

Perpignan

Fino al 16 settembre

Perpignagn, Francia

http://www.visapourlimage.com

La mania del souvenir

Estate. Da almeno un secolo la stagione più calda dell’anno è anche la più desiderata: per molti l’arrivo dell’estate è sinonimo di fuga dalla routine quotidiana, di partenze per destinazioni vicine e lontane, di viaggi più o meno risposanti, insomma di vacanze e soprattutto di turismo.

Anche a Barcellona il termometro parla chiaro: con l’aumento della temperatura, gli indigeni affollano gli aeroporti e i visitatori – già numerosi nel resto dell’anno – si appropriano definitivamente delle ramblas. Ad entrambe queste schiere di viaggiatori – quelli che arrivano in città e quelli che si preparano a lasciarla – sembra rivolgersi l’unica esposizione estiva del Centre de Cultura Contemporània de Barcelona (CCCB), intitolata emblematicamente (ed internazionalmente) Souvenir.

Si tratta di una mostra dedicata a Martin Parr, fotoreporter e fotografo britannico, membro della nota agenzia Magnum Photos, autore di una cinquantina di libri di fotografia e protagonista di un numero ben più alto di esposizioni monografiche.

Martin Parr potrebbe essere facilmente catalogato come fotografo documentarista. Le sue immagini sono un susseguirsi di istantanee di vita quotidiana, riprodotte senza alcuna forma di lirismo, come se il loro unico fine fosse quello di andare ad occupare le pagine di un memorandum degli usi e costumi del nostro secolo. L’osservatore contemporaneo, però, posto di fronte a questa ordinarietà cui non è stata concessa alcuna redenzione estetica, è quasi costretto a fermarsi a riflettere su ciò che fino ad un attimo prima avrebbe velocemente liquidato come fatto ovvio, normale. La finalità critica del lavoro di Parr è immediatamente evidente, ma si tratta di una critica ironica, condotta a colpi di lenti macro, colori ipersaturati e soggetti che suscitano il sorriso.

Verve documentaria, critica e ironia si mescolano anche nell’esposizione organizzata dal CCCB. I souvenir del titolo sono innanzitutto quelli acquistati e prodotti nell’esercizio della pratica di massa per eccellenza dei nostri giorni, il turismo. Le fotografie di Parr raccolte per l’occasione – tra cui la serie inedita realizzata a Barcellona – sono una fenomenologia in immagini del viaggio-vacanza e della necessità documentaria che anima i suoi protagonisti, ritratti in possesso di cartoline e oggetti immancabilmente kitsch, mentre scattano istantanee in luoghi-simbolo o inseguono la testimonianza più effimera del soggiorno tropicale, l’abbronzatura.

Sulle pareti del CCCB, però, la critica diventa autocritica, e lo sguardo ironico del fotografo si rivolge verso se stesso. Nell’esposizione si trovano infatti fianco a fianco gli scatti sarcastici del Parr fotografo e le cartoline e gli oggetti banali che il Parr collezionista ha raccolto nel corso degli anni, nonché una serie di autoritratti in cui è l’artista a fare la parte del turista, immortalato a colori sgargianti da fotografi di mezzo mondo. Riunite in uno stesso luogo, queste immagini svelano il collezionista di souvenir che si nasconde in ogni fotografo, produttore per eccellenza di oggetti – le fotografie – che immobilizzano un momento soltanto per rivederlo. E a tutti noi, turisti e fotografi d’occasione, Martin Parr sembra domandare perché sentiamo il bisogno di registrare in una fotografia o in un oggetto un’esperienza che comunque rimarrà impressa nella nostra memoria – la sua risposta, la potete trovare nel suo blog.

Fino al 21 ottobre 2012
CCCB ( Centre de Cultura Contemporània de Barcelona
C/ Montalegre 5, 08001 Barcellona
http://www.cccb.org/

Quando il cinema fa sul serio

Ho incontrato i fratelli De Serio per caso, alla GAM di Torino, dove mi ero recato per assistere alla conferenza stampa della bella mostra di James Brown. Dati i tempi di austerity, lo staff del museo ha ben pensato di accorpare due inaugurazioni nella stessa mattinata, aggiungendo, a quella già citata, la presentazione delle due opere di videoarte realizzate da Gianluca e Massimiliano De Serio per il secondo appuntamento del progetto Vitrine, che, con scadenza bimestrale, porta nell’istituzione torinese alcuni dei talenti artistici più promettenti della città. Colpito e intrigato dalla silenziosa e rarefatta eleganza del dittico di filmati intitolato Looking for Luminita, ho sentito di volerne sapere di più e mi sono approcciato a Massimiliano, proponendogli un’intervista e ottenendo un indirizzo email a cui contattarlo.

L’intervista, purtroppo, si è persa nel marasma del Torino Film Festival, conclusosi lo scorso fine settimana, ma, proprio grazie alla stessa rassegna cinematografica, ho avuto l’occasione di assistere alla proiezione del primo lungometraggio dei De Serio e di rimanerne completamente conquistato.

Sette opere di misericordia, questo il titolo del film, è, proprio come i video in mostra alla GAM fino al 31 gennaio 2012, un capolavoro nebbioso fatto di silenzi tanto intensi quanto delicati. È questa capacità di gettare uno sguardo pregno di sensibilità e amore, che trasfigura anche il pestaggio più cruento perché visto con compassione nei confronti della vittima, su dei temi crudi e tristi come sono quelli della solitudine delle persone anziane e degli emarginati, a rendere la visione del film un’esperienza unica e, addirittura, edificante.

I due protagonisti, interpretati da un Roberto Herlitzka incredibilmente inteso, a cui basta un gesto delle mani rugose per restituire tutta la sofferenza del proprio personaggio, e dall’altrettanto brava Olimpia Melinte, si muovono in una Torino suburbana pressoché irriconoscibile, fantasmi di un nonluogo che è la periferia degradata interscambiabile di qualsivoglia metropoli occidentale. I dialoghi sono pochi, lucidi, realistici e splendidamente privi di fronzoli poetici e frasi ad effetto, e lasciano spazio agli sguardi di Luminita e Antonio e, soprattutto, ai loro corpi, che sono i veri protagonisti della pellicola dei fratelli De Serio, capaci di incorniciarli in inquadrature di una bellezza struggente che si susseguono una all’altra per tutta la durata del film.

Visto Sette opere di misericordia, un’opera che fa bene al cinema e all’arte in generale, il dispiacere per la mancata intervista non si è certo chetato, anzi, è aumentato proporzionalmente alla fascinazione nei confronti di due registi di incredibile talento, che, si spera, possano riscuotere il successo di pubblico che indubbiamente meritano. Quando, nel gennaio del prossimo anno, il film uscirà nelle sale, sarò certamente pronto con le domande vecchie e altre nuove da rivolgere ai due autori.

Sette opere di misericordia, trailer

Sette opere di misericordia – Italia, Romania 2011
di Gianluca e Massimiliano De Serio
103 min.

VITRINE
Gianluca e Massimiliano De Serio
fino al 31 gennaio 2012
GAM, Torino

Andy Warhol e l'essenza dell'apparenza

È proprio vero che gli anni ’60 non passano mai di moda. A riprova di ciò si potrebbero citare un’infinità di esempi estratti da qualsivoglia settore culturale possibile e immaginabile. Giusto una manciata di giorni fa, per dire, Paul McCartney registrava il tutto esaurito sia a Milano che a Bologna. Questo vale anche per l’arte, ovviamente. Basti pensare che, dall’ottobre scorso, l’intera penisola è infestata di mostre dedicate all’Arte povera (e noi non ce le siamo lasciate scappare). Ma se c’è un artistica che, più di tutti gli altri, è sinonimo di quel decennio straordinario, questo è senza alcun dubbio Andy Warhol.

La mostra Dall’apparenza alla trascendenza – fino all’11 marzo 2012 al Centro Saint Benin di Aosta –  ripropone il percorso creativo del padre della Pop art attraverso una collezione di oltre settanta lavori, tra cui spiccano le celeberrime “icone” che, assieme alla serie di opere dedicata alle zuppe Campbell, sono l’essenza stessa dell’arte warholiana. I variopinti ritratti di Mao Tse-Tung, Marylin Monroe e Liza Minnelli – tutti presenti in mostra – sono quasi più riconoscibili dei volti reali degli stessi personaggi e certamente hanno avuto un ruolo fondamentale nello spingerli oltre la semplice fama, ergendoli al rango di icone immortali.

L’allestimento curato da Francesco Nuvolari, però, trova il suo vero punto di forza nel tentativo, riuscito, di andare oltre la mera proposta di opere arcinote a tutti – per quanto geniali e quindi sempre godibili –, inserendo l’artista originario di Pittsburgh all’interno di un contesto più ampio, quello della società dell’immagine, di cui egli stesso fu uno dei più celebri portabandiera. La serie degli Space Fruits, i già citati ritratti delle zuppe Campbell – riprese addirittura su di un sacchetto della spesa di carta, del 1966, e sulla tomaia di un paio di scarpe distribuite al Club 54 di New York, nel 1978 – e, soprattutto, la sorprendente collezione di copertine di dischi – da Sticky Fingers dei Rolling Stones, autografato da Mick Jagger e dallo stesso Warhol, fino alla celeberrima banana dei Velvet Undeground – testimoniano perfettamente di una creatività vulcanica sempre connessa a uno spiccato spirito imprenditoriale e opportunistico.

Perché, se Warhol è Warhol, cioè il nome più famoso dell’arte del secondo dopoguerra, è proprio grazie alla sua geniale trovata di “abbassare” l’arte al livello dei prodotti commerciali, rendendola, in un certo senso, più democratica, perché più facilmente reperibile, acquistabile, e quindi inserendola nel meccanismo della macchina consumistica. Lui che aveva predetto i 15 minuti di fama per ogni essere umano, aveva perfettamente capito come guadagnarsi la gloria immortale.

Andy Warhol - Judy GarlandAndy Warhol - Liz TaylorAndy Warhol - ManRay 1974Andy Warhol - InterviewMagazine Madonna 1985Andy Warhol - Liza Minnelli white ground 1978

 

Andy Warhol. Dall’apparenza alla trascendenza

Fino all’11 marzo 2012

Centro Saint Benin, Aosta

Povera, bella e del tutto innocua

Buren, Peinture sespendueGli anni ’60, come si è ripetuto fino alla noia, sono stati un decennio fondamentale per la ricerca in ambito artistico e, senza alcun dubbio, hanno sparigliato le carte in tavola più di quanto non avessero fatto la dionisiaca arte informale e l’apollineo astrattismo geometrico del secondo dopoguerra. Questa è l’epoca del concettualismo, della Pop art, dell’arte performativa, del minimalismo e, in Italia, dell’Arte povera. Lo si voglia o no, questi sono i padri e le madri di un’arte  incomprensibile per il grande pubblico e che gli stessi esperti del settore fanno spesso fatica a digerire. E allora, nell’orgia celebrativa del 2011, si è ben pensato di infilare anche i festeggiamenti di quello che è stato l’ultimo importante movimento artistico sfornato dalla penisola – con buona pace di Achille Bonito Oliva e della sua Transavaguardia –: l’Arte povera, appunto.

Il famigerato gruppo dei poveristi, nato nel 1967 attorno al critico Germano Celant, giunge dunque alla consacrazione storiografica – dopo aver incassato ampiamente quella del mercato – attraverso una serie di otto appuntamenti espositivi che si snodano sulla superficie peninsulare, dal MAMbo di Bologna al MADRE di Napoli, passando per Milano, Roma, Bergamo, Bari e, ovviamente, il Castello di Rivoli (To), che mai ha sottaciuto il suo amore per i vari Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario e Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio.

Ogni singola mostra ha la sua peculiarità e quella del Castello di Rivoli sta nell’inserire una serie di opere storiche dei poveristi all’interno di un’ottica internazionale, dando vita a un gioco di rimandi, comunanze e contrasti con alcuni nomi importanti del panorama artistico di quegli anni: Oppenheim, Sol LeWitt, Warhol, Art & Language, Beuys ecc. ecc. L’operazione Arte Povera International è senz’altro riuscita e a provarlo ci pensa, ad esempio, il suggestivo dialogo tra un Concetto spaziale di Lucio Fontana e uno specchio deformante di Pistoletto, due indagini sul tema dello spazio tanto diverse nei materiali e nella forma quanto affini nel risultato distorcente.

Calzolari, Senza titoloCiononostante, lo scambio dialettico più affascinante, nonché il più facilmente fruibile, è quello che avviene tra le opere e le sale splendidamente decorate della seicentesca dimora sabauda che si affaccia da un colle sulla città Torino. L’impatto visivo generato dal contrasto estremo tra gli spazi merlettati e stuccati e le crude installazioni di Penone, Kounellis e Calzolari è di una forza a tal punto dirompente che, in assoluta spontaneità, allo spettatore vien da pensare che questi ammassi di foglie secche raccolte e accatastate contro tre pareti, le scarne lampadine e i vestiti e le scarpe scure adagiate sul pavimento siano addirittura belli.

Giunti a questo punto si sa che la consacrazione è avvenuta: l’Arte povera è finalmente diventata un classico degno di una retrospettiva museale. Anzi, di otto! Al contempo, è ovvio che essa abbia irrimediabilmente perso tutta la sua essenza provocatoria che, alla nascita, come il punk in ambito musicale o i sessantottini in quello politico e sociale, aveva scardinato i meccanismi di un marchingegno stanco, mostrando quanto bastasse poco per fare arte e per spaventare i benpensanti. Oggi il punk è stato edulcorato a tal punto da piacere alle pischelle, i sessantottini difendono Berlusconi a spada tratta e l’Arte povera è addirittura bella. C’è da dire che, all’epoca, quando ancora non entrava nei castelli e non sfiorava valutazioni milionarie, faceva davvero schifo a tutti. Bei tempi quelli.

Warhol, Ritratto ProustKounellis, LettoPistoletto, LampadinaPenone, Albero 11 metriKounellis

Arte Povera International
Fino al 19 febbraio 2012
Castello di Rivoli (To)

La vita segreta di Maurizio Cattelan

cattelanNel 2004 furono i tre bambini impiccati ai rami di un albero secolare in piazza XXIV maggio, nel cuore trafficato di Milano, a scatenare le polemiche e le invettive dei cittadini del capoluogo lombardo, tanto che, uno di loro, armato di scala e cesoie andò a “salvarli” nottetempo. Sei anni più tardi, in occasione della sua striminzita, seppur suggestiva, mostra a Palazzo Reale, sempre a Milano, Maurizio Cattelan, ex enfant prodige dell’arte italiana e oggi suo più decorato alfiere, scatenò l’ennesima polemica posizionando l’ormai famigerato dito medio di marmo bianco al centro di piazza degli Affari, rivolto in direzione di Palazzo Mezzanote, sede della Borsa. Passato un altro anno, non si è ancora smesso di parlare di quell’irriverente scultura. C’è chi vorrebbe tenerla per il prestigio che darebbe alla città – tra gli ultimi, Stefano Boeri, assessore alla Cultura della giunta Pisapia –, e chi, invece, proprio non la sopporta, non la vuole più vedere ed è pronto a cederla alla prima città che ne facesse richiesta.

La verità è che, così facendo, non si smette mai di parlare di Maurizio Cattelan, un ossimoro vivente che riesce a coniugare l’assenteismo proprio delle star – a giugno ha “bucato” un’ennesima conferenza, questa volta in quel di Padova – e l’ubiquità. Lo scorso fine settimana, Cattelan era ad Artissima con il suo tappeto che riprende il disegno della scatola del formaggino Bel Paese, alla Biennale di Venezia con i suoi piccioni, al Guggenheim di New York con la sua ultima incredibile retrospettiva intitolata All e, infine, nelle migliori librerie con il libro-intervista Un salto nel vuoto (Rizzoli, 2011), realizzato in collaborazione con Catherine Grenier, condirettrice del Centre Pompidou di Parigi.

Maurizio-CattelanQuest’ultimo offre l’occasione di conoscere più intimamente un artista schivo che aveva finito per coincidere quasi esclusivamente con le proprie opere e il cui volto reale era stato soppiantato da quello lievemente caricaturato dei suoi ritratti in cera. Veniamo a conoscenza di un’infanzia padovana solitaria, del lavoro in ospedale, del difficile rapporto col padre e, soprattutto, del costante anelito alla libertà, il vero motore che l’ha portato ad abbandonare una mera prospettiva di sopravvivenza che occupava otto ore della sua giornata, per inventarsi prima designer di mobili e lampade e, successivamente, artista.

Ancor più interessante è ripercorrere l’intera vicenda di questa carriera creativa, dai suoi geniali esordi concettuali – AC Forniture Sud, del 1991, progetto di una fantomatica squadra africana di calcio i cui giocatori erano in realtà un gruppo di venditori ambulanti; le casseforti svaligiate del 1992; il proprio spazio alla Biennale di Venezia del 1993 “affittato” a una marca di profumi –, passando per lo spartiacque costituito da La ballata di Trotsky (1996), il famoso cavallo sospeso che viene individuato da Greiner come il primo lavoro più prettamente scultoreo dell’artista, fino alla già citata immensa personale in pieno svolgimento in quel di New York, dove oltre duecento opere dell’artista – tra cui il papa colpito da un meteorite, l’Hitler inginocchiato e l’autoritratto che spunta da un buco nel terreno – galleggiano a mezz’aria, appese ad altrettante corde, impiccate proprio come i tre bambini dello scandalo del 2004, ma non con l’intenzione di creare l’ennesima polemica. Come dice lo stesso Cattelan, l’idea è quella di togliere loro “il lato tragico. L’insieme di tutte queste opere forma un’altra opera, un’opera unica. Per anni ho lavorato sulla decontestualizzazione. Adesso sono arrivato al punto in cui decontestualizzo me stesso”.

Stanco di essere visto come un costruttore di polemiche ad hoc, come ultimo atto, l’artista mostra le sue opere per ciò che sono materialmente e siamo certi che anche questa mossa farà parlare a lungo di lui.

Titolo: Un salto nel vuoto. La mia vita fuori dalle cornici
Autori: Maurizio Cattelan e Catherine Grenier
Editore: Rizzoli
Dati: 2011, 145 pp., 18,00 €

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