Hai la mia spada. E il mio arco. E il mio libro. Difendere la Terra di Mezzo, di Wu Ming 4

La Terra di Mezzo illustrata da Barbara Remington

Che ti piaccia o no, uno dei più grandi scrittori del secolo scorso – uno dei Grandi, in effetti – si chiama J.R.R. Tolkien. E non tanto perché, a sessant’anni dalla prima edizione de Il Signore degli Anelli, il successo di pubblico dell’opera tolkieniana non accenna a diminuire: quello è l’effetto, non la causa. Il vero cuore della grandezza di Tolkien pulsa più in profondità: semplicemente, qualunque compito o ruolo tu decida di attribuire a quel complesso sistema di valori e funzioni che chiamiamo Letteratura, l’opera di Tolkien sarà sempre perfettamente in grado di assolverlo. Bussola etica, specchio esistenziale, creazione di mondi alternativi, riflessione sul potere delle storie, strumento di comprensione e interpretazione del reale, tutto quello che vuoi: Tolkien non cederà mai il passo. All’alba del 2014 si direbbe che ormai dovresti essertene fatto una ragione. E invece.

E invece, se esistesse una Storia dei pregiudizi letterari, il capitolo su Tolkien starebbe senz’altro tra i primi cinque. Pochi autori hanno subito, lungo i decenni, altrettanti fraintendimenti, equivoci, mistificazioni, forzature interpretative, “sgambetti” critici, superficialità verso l’intero genere letterario di appartenenza (l’ultima pronunciata nientemeno che dall’alto pulpito di quel flop galattico chiamato Masterpiece), tante e tali da ribaltare drasticamente il significato intrinseco dell’intera opera tolkieniana. Da qui la necessità, ancora oggi, di difendere la Terra di Mezzo: impresa che richiede non più spade, asce o archi, ma profondità di pensiero e attenzione ai dettagli. E Wu Ming 4, nella raccolta di scritti su Tolkien pubblicata qualche mese fa da Odoya, dimostra di saper maneggiare sapientemente entrambe le armi.

Le questioni sul campo sono due: controbattere i tentativi cinquantennali della Critica Alta di sbarazzarsi di Tolkien relegandolo sotto l’etichetta vacua e informe di “letteratura d’evasione” e assegnando alla sua opera il valore poco più che folkloristico di rievocazione nostalgica del bel tempo andato traslato in un mondo d’invenzione; e cercare di capire per quale motivo, dopo Tolkien, si spalanchi un abisso che accoglie in sé centinaia di successori, ma nessun erede.

Per affrontarle a dovere, Wu Ming 4 decide di partire dall’inizio: tratteggiando la figura di Tolkien come medievista oxfordiano, imitatore – prima che narratore – di storie mitiche e inventore di nuovi linguaggi. Proprio nel linguaggio sta l’origine dell’epica tolkieniana: ribaltando la pratica che poi i suoi epigoni avrebbero necessariamente seguito, da buon filologo Tolkien prima diede vita a nuove lingue (sistemi linguistici embrionali, ma perfettamente coerenti e connotati, ognuno con peculiarità e sonorità proprie), e solo dopo si preoccupò di creare mondi complessi che quelle lingue potessero popolare di vita e leggenda. Ciò che in autori come Brooks o Martin è pura esigenza coloristica – l’introduzione di parole con suoni e grafie appropriatamente epiche – nell’opera tolkieniana diventa la genesi stessa dell’intera cosmogonia della Terra di Mezzo. Non a caso, nel Silmarillion il mondo si genera dalla musica e dai canti. Niente male per un autore di serie B, vero? Ma non finisce qui. Perché a ogni mondo mitico che si rispetti, oltre alle lingue, serve anche un’etica eroica: e per un’opera composta in anni che videro il mondo squassato dalla più grande guerra mai combattuta, l’argomento era piuttosto scottante.

Smaug around the Mountain - un'illustrazione originale di Tolkien per Lo Hobbit

Ancora una volta, l’origine dell’etica tolkieniana sta nel mondo che il suo autore conosceva meglio: il Medioevo e i cicli della mitologia germanica. Che promuovevano un’ideologia eroica incarnata in guerrieri desiderosi solo di annientarsi nel volere del proprio condottiero, vincendo battaglie o morendo nel tentativo. Peccato che l’annichilimento della personalità collettiva nella volontà del capo, negli anni in cui Tolkien rinsaldava le fondamenta del proprio universo leggendario, non avesse prodotto esiti granché invidiabili. Senza contare che la superficialità propagandistica con cui il Nazismo continuamente falsava l’essenza dei suoi adorati miti germanici irritava non poco Tolkien, da sempre fiero oppositore di ogni forma di segregazione razziale. Da cui la necessità di creare una nuova etica eroica, che doveva avere il proprio cuore non nell’obbedienza cieca a un capo, ma nel libero arbitrio del singolo individuo. L’epica tolkieniana è il racconto delle imprese di personaggi che procedono costantemente attraverso il dubbio e la necessità di scegliere tra una via o l’altra, in un’impresa in cui ogni passo in avanti conduce ad un bivio. Chi si adegua al vecchio modello eroico perisce, peggio ancora: rischia di trascinare alla rovina eserciti e città. Chi è insicuro, dubbioso, ma determinato ad andare avanti nel nome del bene comune, alla fine salverà il mondo.

Ed ecco che Tolkien, lungi dall’essere sinonimo di “escapismo”, può nuovamente rivestire a pieno diritto il proprio vero abito: quello di un autore così profondamente radicato nel proprio tempo da arrivare a proporgli un nuovo modello di comportamento. Riflettendo sul potere e le sue incontrollabili derive, sul libero arbitrio, sulla volontà di salvezza che solo nel bene collettivo può trovare la propria ragion d’essere; il tutto, ovviamente, raccontando storie straordinarie, complesse e intrinsecamente coerenti in un’unica visione d’insieme. E tutto ciò risponde anche alla seconda domanda: Tolkien non ha ancora trovato un erede perché nessuno è ancora riuscito a costruire una cosmogonia ugualmente “viva”, strutturata e suscettibile di infinite possibilità di sviluppo, oltre che sorretta da un’altrettanto profonda istanza etica.

Se poi tutto questo non dovesse bastarvi, nel libro di Wu Ming 4 troverete anche molto altro. Scoprirete, ad esempio, il caso “Tolkien in Italia”: vale a dire quel particolare filone interpretativo unico al mondo (e che il mondo non ci invidia: nessuno all’estero si è mai sognato di riprenderlo) con cui la critica italiana di destra ha pensato bene di leggere l’opera tolkieniana, sovrapponendovi un simbolismo fatto solo di parole che ha ridotto l’epica dell’Anello a un inno reazionario ai valori del Medioevo e del paganesimo. Oppure le letture cristiane, che fanno di Frodo una metafora di Cristo; o ancora, che l’influenza di Tolkien è stata così vasta che persino i Led Zeppelin, per dire, hanno seminato echi tolkieniani un po’ dappertutto. Imparerete a conoscere meglio gli Hobbit e il tipo di società a cui si ispirano. Il tutto con l’accompagnamento del bellissimo corredo iconografico che quasi ad ogni pagina affianca testo e immagine in un’armonia visiva che sempre di più caratterizza la produzione editoriale Odoya.

Un’unica avvertenza: questo libro nuoce gravemente ai pregiudizi letterari. Se credete che esistano letterature di serie A e di serie B, Difendere la Terra di Mezzo non fa per voi: non ci capireste niente. A meno che non abbiate voglia di spegnere i pregiudizi per un po’ e gustarvelo, come dicono i recensori delle riviste serie, “come fosse un romanzo”; finché, voltata l’ultima pagina, vi guarderete intorno e vi ritroverete con un punto di vista diverso su un sacco di cose. Che poi è proprio quello che succede con i buoni romanzi, e con i viaggi di avventure.

"Difendere la Terra di Mezzo" di Wu Ming 4 - grafica

P.S. Svariati minuti di applausi allo studio Brochendors Brothers, che ha realizzato la bellissima grafica di copertina. Sarebbe stato facile piazzare in bella mostra un uomo, un nano, un elfo, un bosco e chiuderla lì: ma le armi di Théoden re di Rohan che sorvegliano la brossura anteriore e l’Albero Bianco di Gondor in placida attesa in quella posteriore rappresentano esortazioni ben più efficaci, per chi si accinga a difendere la Terra di Mezzo. Chapeau.

"Difendere la Terra di Mezzo" di Wu Ming 4 - copertinaWu Ming 4
Difendere la Terra di Mezzo. Scritti su J.R.R. Tolkien
Odoya
2013, pp. 288, € 18,00

Potere ai timidi!

“Non c’è nessuna correlazione tra essere il migliore conversatore e avere le idee migliori”

introversi

È con questa frase-simbolo che si può riassumere il significato del prezioso saggio, dedicato alle persone chiuse e a chi ha a che fare con esse. Per scoprire che il nostro mondo ha bisogno di meno chiacchiere e più pensiero.

Susan Cain (@susancain) è un ex avvocato che oggi dedica tutte le sue energie alla scrittura e alla famiglia, come lei stessa ammette in Quiet. Il potere degli introversi in un mondo che non sa smettere di parlare (sito ufficiale). Perché il bello di questo saggio è proprio il parlare in prima persona, non solo tra le righe: Susan Cain, infatti, non è una psicoanalista né una sociologa, ma un’introversa che ha deciso di devolvere le sue energie alla scoperta di quell’esigua percentuale di popolazione di cui lei stessa fa parte, per esaltarne le qualità, misconosciute ai più.

Nella nostra cultura, infatti, chi dice introverso dice misantropo, dice chiuso, dice insomma un qualcosa di negativo, addirittura ai limiti col patologico, ignorando che tra le più grandi personalità (come Einstein, ad esempio) spiccano proprio gli introversi. Esseri generalmente delicati e propensi più alla riflessione che alla socializzazione, particolarmente sensibili nel cogliere gli stati d’animo altrui e i molteplici aspetti della realtà.

susan cainSusan Cain cita molti esempi, tra cui imprenditori originariamente solitari come Steve Jobs o ponderati uomini del mondo della finanza, accomunati da pregi quali pazienza, calma e lentezza. Difficile che nel 2013 si considerino accattivanti caratteristiche di questo tipo, ma è proprio grazie ad esse che, per esempio, i banchieri più introversi si salvarono dal fallimento, a differenza dei loro impulsivi colleghi estroversi.

Merito della scrittrice è quello di aver ribaltato alcune credenze molto radicate nel mondo occidentale, specialmente americano: difficile che un newyorkese dedito al competitivo mondo del lavoro della Grande Mela pensi a scavarsi molti momenti per sé durante la giornata, cosa di cui invece un introverso ha assoluto bisogno, a costo di nascondersi nel bagno dell’ufficio pur di sfuggire a una riunione. Siamo infatti nell’epoca dei team e delle logiche di gruppo e chiunque pensi al lavoro solitario viene spesso tacciato di egoismo, altro luogo comune scagliato sui poveri introversi che, sin dall’infanzia, non fanno altro che lottare contro i tentativi di normalizzazione della famiglia, della scuola e della società, a partire da frasi come: “Suo figlio è troppo chiuso, dovrebbe socializzare di più”.

I genitori e gli insegnanti sono infatti i primi a non credere nelle potenzialità dei bambini più riservati, senza sapere che invece le loro menti fervide stanno già producendo scenari spesso favolosi. L’importante è lasciare indisturbati coloro che preferiscono l’amicizia di uno o due bambini rispetto a chi ama capeggiare interi gruppi. Ma attenzione: non si pensi che gli introversi siano privi di capacità di leadership. Al contrario: hanno dalla loro qualità come empatia e riflessività, che gli permettono di guidare un gruppo con successo.

La Cain fa un grande lavoro che tenta di scavare un solco in una società piena di stereotipi come quella americana (e, diciamocelo, anche italiana). Pecca forse di qualche tecnicismo di troppo, presumibilmente retaggio della mania d’oltreoceano di medicalizzare tutti gli aspetti della mente umana. Ma il tentativo è nobile e si esplicita nelle ultime pagine: aprire gli occhi di coloro che hanno ancora sulla punta della lingua parole tra il dispregiativo e il compassionevole nei confronti di chi usa isolarsi durante una festa o di chi predilige una tranquilla serata tra i libri a uscite con persone schiamazzanti di cui il mondo è fin troppo pieno. Da leggere.

Quiet. Il potere degli introversi in un mondo che non sa smettere di parlareTitolo: Quiet. Il potere degli introversi in un mondo che non sa smettere di parlare
Autore: Susan Cain
Traduzione: C. Prosperi
Editore: Bompiani (Overlook)
Dati: 2012, pp. 432, euro 17,00

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Donne spezzate nel paese del femminicidio

“Il furore mi possedeva. Tirai fuori il coltello. Avrei voluto che avesse paura e mi chiedesse grazia, ma quella donna era un demonio. ‘Per l’ultima volta’ gridai, vuoi restare con me?’, ‘No, no, no!’ disse pestando i piedi e si sfilò dal dito un anello che le avevo regalato e lo gettò tra i cespugli. La colpii due volte. Avevo preso il coltello del Guercio perché il mio si era rotto. Cadde al secondo colpo senza un grido”. Carmen è uccisa da don José nella novella omonima di Prosper Merimée (che ispirò l’opera musicata da George Bizet) perché l’uomo non accetta  d’esser lasciato. Quante tragiche Carmen ci raccontano le cronache ostinandosi ancora a usare l’espressione ‘delitto passionale’ o parlando di ‘raptus di gelosia’ come se le passioni (presunte) legittimassero gli omicidi. È una mattanza silenziosa quella provocata in Italia da uomini ‘di famiglia’, accettata altrettanto silenziosamente dalle istituzioni. Non appena si parla di femminicidio come è giusto, la mente collettiva si chiude: il femminicidio è questione che riguarda popoli di altre culture, arcaiche, primitive, brutali, afflitti da religioni dogmatiche, patriarcali e maschiliste. Invece la violenza sulle donne è proprio faccenda di casa nostra, un fenomeno in preoccupante aumento. I dati più recenti sono quelli della storica Associazione Telefono Rosa che a inizio luglio ha presentato il rapporto ‘Le voci segrete della violenza’. In nome dell’amore, amore malato e feroce che si tramuta in violenza assassina: solo nei primi 6 mesi del 2012 sono state uccise 71 donne. Si possono citare numeri a fiumi, una casistica inquietante, ( l’Istat ha rilevato che tra il 2005 e il 2010 sono state vittime di omicidio in Italia 650 donne) ma si ha sempre la stessa terribile conferma: padri, mariti e compagni si trasformano da care presenze in implacabili omicidi; la casa talvolta non è il nido sognato ma il luogo dove si consumano agguati mortali; la famiglia è un’aggregazione spesso insidiosa e perversa. Un libro certo non fa miracoli ma può aiutare a tirare le fila di una questione attuale, specie se chi lo scrive assiste e aiuta donne. Donne spezzate. La violenza tra le mura domestiche (Curcio editore, 2009,  € 12,90) è  un testo di agevole lettura scritto da Milena Milone, sessuologa, consulente di coppia e mediatore familiare, con l’intento di testimoniare la propria lunga esperienza: “nella mia pratica lavorativa – scrive l’autrice – mi è capitato di vedere decine di donne coperte di lividi e le storie che mi sono state raccontate sono tutte abbastanza simili”.

Il libro è dedicato alle donne ma è anche un severo monito: inquieta più di tutto per l’autrice la cortina di silenzio, l’adattamento alle violenze, psicologiche, morali, fisiche subìte, che ci rendono complici dei responsabili. A volte il femminicidio è l’ultimo atto di una lunga sequenza fatta di abusi e maltrattamenti mai denunciati. La violenza può essere declinata in tanti modi, tutti da non sottovalutare. È ‘metafisica’ quando è vessazione occulta che possono usare entrambi i partner, in forma di strategia del silenzio, di rifiuto sessuale, o facendo leva sulle debolezze dell’altro per incrinarne l’autostima. La violenza metafisica destabilizza la psiche della vittima pur non producendo un danno almeno apparente. La sopraffazione morale e psichica si manifesta attraverso un’ampia casistica del ricatto, dalla gestione dei soldi fino al caso in cui l’uomo non sopporta d’essere lasciato, che sia marito o fidanzato. Allora agisce come il don José della Carmen; purtroppo però le tragedie che si consumano sono reali. L’aggiornamento legislativo non è sinonimo di svolta culturale e di cambiamento di dinamiche mentali secolari. Ricorda infatti l’autrice che la prima riforma del diritto di famiglia risale al 1975; fino a quella data al ‘pater familias’ era consentito percuotere sia la moglie che i figli a fini ‘educativi’  e il cosiddetto ‘delitto d’onore’ commesso dall’uomo era punito con pene leggere; solo nel 1996 l’ordinamento giuridico italiano ha riconosciuto lo stupro come reato contro la persona e non contro la morale quale era; aggiungiamo che la legge sul divorzio è del 1970, che lo stalking in Italia è reato dal 2009. “Con il passaggio dal famigerato codice Rocco alla già citata legge 151 del 19 maggio 1975, il comportamento del maschio all’interno della famiglia sarebbe dovuto cambiare in modo netto e inequivocabile. Purtroppo le statistiche che fornisce l’Istat circa i gravi maltrattamenti che le donne subiscono, oggi forse addirittura più di ieri, dimostra invece che per ottenere cambiamenti nel comportamento dell’uomo bisogna che cambi la mentalità: la legge che pure è necessaria, non basta. Dirò anzi, sempre riferendomi al nuovo diritto di famiglia che l’aggressività che un tempo il maschio poteva manifestare pubblicamente nei confronti della propria moglie non è scomparsa ma si è trasferita, nascondendosi, più virulenta, all’interno della casa, dove cioè nessuno può vedere quello che succede, a meno che chi è aggredito non renda pubblica la vessazione che subisce”. Ma la violenza domestica non è denunciata.

La complicità femminile con una modalità deteriore d’essere del maschile comincia dall’educazione materna dei figli maschi fino al tacere sui delitti compiuti dai mariti contro i figli, maschi e femmine.  Secondo una nota criminologa americana Diana Russell, “la morte della donna rappresenta l’esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine”. Le donne sono uccise in quanto donne, perché colpevoli di aver esercitato l’autodeterminazione, aver trasgredito al cliché di femminilità che l’immaginario maschile ha introiettato e impone: la donna obbediente, brava madre e moglie, la Madonna di pazienza e sopportazione ma sessualmente disponibile, l’Eva  tentatrice a comando. Prendersi la libertà di decidere cosa fare delle proprie vite, sottrarsi  al potere e al controllo del proprio padre, partner, compagno, amante può essere pagato a caro prezzo. La violenza è universale e tutte le società patriarcali hanno usato, e continuano a usare, il femminicidio come forma di punizione e controllo sociale sulle donne. Milone ricorda l’inesistenza e invisibilità della donna per secoli e millenni, se non come corpo di procreazione, di piacere, consolazione, o su cui agire la violenza perché origine del peccato e di ogni male. Ricorda da che razza di storia ‘recente’ veniamo:dal XIV al XVII secolo imperversò in Europa la caccia alle streghe e attraverso il libro di due frati domenicani, Kramer e Sprenger, il Malleus Maleficarum (Il martello delle streghe), con l’appoggio incondizionato della chiesa si realizzò una persecuzione e carneficina di donne; pensatori e filosofi sono stati convinti per secoli che la donna non avesse l’anima; nel 1900 Paul Julius Mobius, medico neurologo scriveva un trattato ritenuto credibile su L’inferiorità mentale della donna, e ancora Sigmund Freud  era convinto che per le donne “l’anatomia è destino”.

Allora ci rendiamo conto che il processo di emancipazione è solo agli esordi e che il condizionamento culturale  basato sulla  dicotomia sessuale è tutt’oggi molto pressante, che il problema non è di quote o cromatismi. Le contromisure femminili alla violenza subita possono arrivare fino a esercitare il poter biologico, in senso tragico e deteriore: Medea uccide i figli. O adeguarsi alle modalità maschili: il caso della ‘Circe della Versilia’, Maria Luigia Redoli uccise il marito. Al tema del condizionamento l’autrice dedica un capitolo a parte. Con questi presupposti esplicativi, ci si sarebbe aspettati di trovare nel testo un riferimento preciso al quadro italiano di assuefazione a un maschilismo sempre più becero e brutale e alla rappresentazione delle donne come oggetto sessuale. Veniamo da anni di veline, escort (termine oggi di moda),donne esibite come corpi in tv, e corpo femminile come mezzo per accedere a tutto anche alla politica, e non ne siamo usciti. Questo ha prodotto solo un grave arretramento culturale che non può non incidere sulla mentalità maschile. L’attuale governo deve ancora firmare la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e il contrasto della violenza sulle donne e la violenza domestica. Il rapporto di Rashida Manjoo, relatrice speciale dell’Onu sulla violenza di genere, è stato molto chiaro nel ritratto impietoso ma reale del nostro paese:  in Italia “nel 54% dei casi di femminicidio, l’autore è stato un partner o ex partner e in solo il 4 % dei casi è un autore sconosciuto alla vittima. La maggior parte dei casi di violenza sono non denunciate nel contesto di una società patriarcale, dove la violenza domestica non viene sempre percepita come un crimine; dove le vittime sono in gran parte economicamente dipendenti dagli autori della violenza; e dove persiste la percezione che le risposte dello Stato non sono appropriate o sufficienti. La violenza domestica, che precede circa il 70% dei femmicidi in Italia e in Europa persiste e aumenta, e si fa sempre più pericolosa perché una donna può trovare la morte in casa con troppa frequenza”. Come sempre il problema è politico e istituzionale: restano inascoltate le raccomandazioni delle Nazioni Unite che hanno fatto più volte presente al governo italiano passato e presente, di non rispettare la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna  pur avendola ratificata.

Come pensare che ci siano cambiamenti se non è riconosciuta la gravità della violenza domestica, e se una donna che viene stuprata deve sottoporsi a esami invasivi per dimostrare che non era consenziente allo stupro subito, o se i centri antiviolenza non hanno risorse? Ammonisce l’esperta Onu sull’Italia: “il mio report sottolinea la questione della responsabilità dello Stato nella risposta data al contrasto della violenza, si analizza l’impunità e l’aspetto della violenza istituzionale in merito agli omicidi di donne (femicidio) causati da azioni o omissioni dello Stato. Femmicidio e femminicidio sono crimini di Stato tollerati dalle pubbliche istituzioni per incapacità di prevenire, proteggere e tutelare la vita delle donne, che vivono diverse forme di discriminazioni e di violenza durante la loro vita”. A quanto pare le sole sollecitazioni di organismi sovranazionali prese in considerazione dalle nostre istituzioni sono di tipo economico-finanziario. Sta a vedere che se c’è un femminicidio al giorno è anche colpa delle donne che si emancipano troppo.

Titolo: Donne spezzate. La violenza tra le mura domestiche
Autore: Milena Milone
Editore: Curcio (collana Rosso ciliegia)
Data di Pubblicazione: Aprile 2009, Pagine 191, Prezzo: 12,90 €

Letture da treno: tana libera personaggi e autori nella loro raccapricciante verità

Se Anna Karenina si butta sotto un treno,  ben le sta: se l’è cercata.  Madame Bovary non muore certo d’amore ma di debiti e paga così “il lusso di non vedere l’avarizia dei suoi amanti”. Penelope è una che la sa lunga, tesse la tela che è il suo internet e  Ulisse che si crede l’avventuroso eroe è  solo un gran becco.  Letture da treno, ma anche da tram, da autobus o da ordinario ingorgo automobilistico sofferto nell’abitacolo della propria utilitaria.  Letture in realtà anche da camera per chi cerca scosse, fulminei sovvertimenti a ciel sereno del pensiero abitudinario per poi rientrare nel binario a mente diventata sghemba. Certo è che  Letture da treno’firmate Barbara Alberti, è un libello irriverente e agile fatto di lampi, indagini psicologiche anche mefistofeliche, successione di micro punzecchiature capaci di macroscopiche risonanze e ciclopici capovolgimenti di fronti. Un viaggio rapidissimo in 18 tappe o minitour:  corrosive riletture di 17 capolavori della letteratura mondiale più un melodramma (la Traviata), per un totale di 18  rivisitazioni all’arsenico dei grandi classici, di fruizione immediata e benefico effetto. Prima di tutto perché compiono un miracolo: rendere sopportabile l’insopportabile stazionamento obbligato sui luoghi di trasporto obbligati dove ristagnano le nostre vite in attesa di arrivare a una qualche destinazione: lavoro, casa, paese dei balocchi. Ed è già un merito. Ti immergi nella lettura e la destinazione è già arrivata. Poi perché questi caustici scritti sono decongestionanti delle spietate mucose mentali. In barba a certa critica ufficiale, seria, seriosa, prolissa, tesa e seduta su allori sbriciolati, la prolifica e indisciplinata scrittrice, sceneggiatrice, giornalista che abbiamo imparato a conoscere e riconoscere per le sue peculiarità, recide con compiaciuta cattiveria e la grinta argomentativa e lessicale che è  suo tratto umorale inconfondibile, i luoghi comuni sui personaggi letterari celebri. Luoghi comuni sui mondi della letteratura persino più deleteri di quelli sui mondi reali. Perché sono entrati in circolo e ci hanno reso lettori inerti, portatori di un’immagine falsata e conservativa se non reazionaria perché troppo composta dei personaggi.

Di Barbara Alberti apprezziamo da veri idolatri, tutto; ci piacerebbe leggere persino una sua lista della spesa, certi che scopriremmo in essa il viatico per entrare in un altro mondo. Nel suo trattamento irriverente e non ortodosso, i personaggi sono fatti di tutt’altra pasta rispetto al cliché in cui li abbiamo ingabbiati dalla scuola a seguire. Tra Sancho e Don Chisciotte non c’è confronto: il vero sognatore è Sancho perché sempre al servizio di un sogno di un altro. Anna Karenina è una gran noiosa, altro che amore, muore di noia e ci fa rischiare anche a noi di raggiungerla nell’oltretomba del tedio e della ritorsione di colpe. Tra Werther e Ortis la differenza balza agli occhi: Werther è un personaggio, un uomo, un sentire; Ortis è un pupazzo. Un gran monotono di maniera, un personaggio pesante. E che dire di Raskolnikov? Oggi andrebbe in tv a vantarsi di come ha ammazzato la vecchia. Barbara Alberti lo considera antipatico e modernissimo in quanto esemplare dell’assassino superstar. Per qualcuno non c’è che un giudizio sferzante, una scudisciata, una sentenza telegrafica che risuona come una condanna a vagare nei gironi dei mediocri o dei senza qualità (altro che eroi ed eroine). A volte gli scrittori sono più pesanti dei loro personaggi e costruzioni: attraverso il libro dell’amico Antonio Ranieri, Barbara scova un Leopardi ghiottone, umano, capriccioso, ingrato, costretto a convivere con la tegola della poesia. Ogni anomalo capitoletto di indagine, questa indagine, fa venire voglia di andarsi a rileggere classici dimenticati o attraversati a mente pigra. Da questo punto di vista il risultato è mirabile, la destinazione è raggiunta oltre ogni stazione prefissata.

Il volumetto più che tascabile e dal prezzo friendly fa parte della collana gransasso della casa editrice Nottetempo. Ed è proprio  un gran macigno gettato nello stagno della fissità. Barbara Alberti gioca compiaciuta a gettare sassi sugli intoccabili classici, non leva la mano, anzi rincara la dose a due mani e manda ai rovi le reputazioni di autori e personaggi. Meglio riderci su, in fondo. L’ha detto e scritto lei stessa. Il libro è nato da una sua esigenza primaria: “Quella di ridere. E dalla mancanza di memoria (che non credo sia un caso, ma una colpa: della disattenzione, della superficialità, dell’idolatria dell’istante). Quando leggo un libro faccio una scheda, un libero commento. Ho gli armadi pieni di note sulla letteratura. Che sono anche una rivolta alle scempiaggini delle “terze pagine”. Un rapporto personalissimo, insolente e innamorato con i classici. Un rapporto stretto con i personaggi che sono amici, nemici, amanti, carnefici”.

Titolo: Letture da treno
Autore: Barbara Alberti
Editore: Nottetempo
Dati: 2008, 79 pp., 7,00 €

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Scrivere? Gioco di prestigio o fallimento ben riuscito

Scrivere è la conseguenza di un’ipermetropia del pensiero: fa affiorare un eccesso di vista e visioni interiori. Ancor prima di comporre anche solo una frase, scrivere è uno stato mentale, un modo di stare al mondo, di respirare, di dirigere i sensi,  di articolare o disarticolare in testa emozioni, suggestioni, impressioni di vita. La condizione psichica di chi non sa e non può assuefarsi alla realtà data, di chi ha un surplus d’attenzione verso ciò che lo sguardo comune non coglie; di chi cova un’urgenza. E  paga pegno con un inesauribile rovello mentale da cui scaturisce una sinfonia o un gracchiare di corvi o tutte e due insieme; pur sempre un atto creativo, determinato e subìto, una magia che resta sempre inspiegabile e lascia stupito per primo chi la compie.

Paolo Di Paolo, svela la sua fenomenologia della scrittura, racconto che tocca prima o poi a ogni scrittore, come fosse il primo uomo sulla terra a cimentarsi nel gran travaso di mondi dalla mente alla pagina scritta. Racconta il suo stato mentale, dono e limite da forzare a un tempo se la sensibilità eccede, in una conversazione racchiusa in un libro in miniatura dal mirabolante titolo Scrivere è un gioco di prestigio.  Fa piacere seguire questa conversazione in forma di lettura. Fa piacere per una molteplicità di motivi. Dalla letteratura e zone limitrofe, ecco un bel segnale in controtendenza rispetto ad altri ambiti, mortificati e mortificanti, della realtà italiana: la gerontocrazia può crollare sotto il peso dei talenti. Chi ha talento può essere anagraficamente molto giovane (specie rispetto agli standard di un Paese che, il Censis lo ricorda ormai quasi tutti i giorni, ha soglie di sbarramento alle professioni di ogni genere, specie anagrafiche), ma portare una compiutezza interiore unita a una competenza che valicano qualunque età. È il caso di Paolo Di Paolo, classe 1983, scrittore e critico, spesso definito con un’espressione convenzionale troppo riduttiva enfant prodige, ha esordito nel 2004 con i racconti Nuovi cieli, nuove carte (Empirìa 2004, finalista premio Italo Calvino per l’inedito 2003), ma già a 15 anni era “di casa” nelle stanze insuperate di Indro Montanelli sul Corriere della Sera, e si avventurava nei territori della scrittura e del giornalismo.

Qui subentra un flashback personale: una redazione di un quotidiano locale ai Castelli Romani dove Paolo si presentò giovanissimo per arruolarsi come collaboratore, ma era già da subito over-size rispetto alle ristrettezze delle circostanze e dell’ambiente; troppo dotato per uniformarsi a chi ciancica parole maltrattate e abusate come spesso fanno i cronisti, specie poi nelle ristrettezze di un angolo di provincia mai emersa da una marginalità culturale. Tra la cronaca di una voragine alle Barozze (strada dei Castelli), i rimpasti delle voraci giunte locali e la contestazione dei venditori di porchetta da titolare in prima pagina, ovvio che uno spirito dotato non poteva trovare una sua collocazione. Chiusa parentesi.

Fa piacere registrare anche la giovane età dell’autore dell’intervista, Stefano Giovinazzo, editore della casa editrice “Edizioni della sera” nata nel 2009 che nella collana La bussola, di cui il libro intervista fa parte, vuole dare spazio a voci autorevoli del presente. Autorevoli non per età, ma per competenza e ricchezza di doti. In questo caso, in fatto di scrittura. Potremmo riconoscere tra le righe dell’intervista, indicazioni valide per questo millennio. Una lezione non americana per fare il verso a Italo Calvino, ma con solide radice letterarie italiane sia pure esportabile in qualsiasi luogo e sincronizzata su un presente globalizzato. Superato il pudore iniziale, Paolo Di Paolo, ha accettato di lasciarsi andare al ruolo di testimone, testimone del nascere della sua stessa scrittura (ha già alle spalle una notevole produzione, ma tra le opere più recenti i romanzi Raccontami la notte in cui sono nato, 2008; Questa lontananza così vicina, 2009;  il saggio, Dove siamo stati felici. La passione per i libri, 2009). Se la scrittura nasce da un’urgenza, è per lui il “riflesso di una ipersensibilità che si esercita, anche ossessivamente, su dettagli che molti trascurano”. La produzione di una vita poi, non è che il ritorno, altrettanto ossessivo, sul primo libro in cui è già contenuto il modo unico in cui uno scrittore declina l’essere.

La scrittura è magia, crea la realtà ma per esercitarla questa magia, a parte la peculiare conformazione mentale e sensoriale di cui si è detto, Di Paolo segue regole precise, si affida all’esperienza di padri e madri letterari. Anche distanti anni luce. Come Manzoni che ammonisce che “per imparare a scrivere bisogna leggere”. Intanto “frequenta” tanti scrittori contemporanei capaci di produrre “libri interstiziali”, in cui i grandi snodi della nostra epoca sono trasferiti in “uno spazio di realtà minimo”,  usando “il piccolo anziché il macroscopico”. Tra i suoi autori, Sebald degli Anelli di Saturno; Jonathan Safran Foer di Molto forte, incredibilmente vicino e Ogni cosa è illuminata; Uwe Timm de L’amico e lo straniero. La magia non si produce se uno scrittore non sia capace di sentire “come vera patria la propria lingua”, e di riferirsi a “una geometria linguistica precisa”. Altro ingrediente fondamentale sono i contatti magici: ciò che Di Paolo chiama “ermeneutica della sollecitazione”, ovvero il dialogo con scrittori di riferimento da lui cercati e “trovati” (Aldo Busi, Antonio De Benedetti, Dacia Maraini, Raffaele La Capria, Antonio Tabucchi) a cui fare quelle domande che in fondo si stanno facendo al proprio nucleo segreto che cerca una gamma di risposte attraverso un continuo confronto dialogico.

Il mestiere dello scrittore, nasce da una passione o da uno “stato di grazia”, poi diventa un continuo esercizio sui testi degli altri e sul proprio immaginario per ripetere quella magia un certo numero di volte. Allora la scrittura semplicemente avviene e si impone come una necessità, ha una propria vita che si afferma nel mistero della creazione. “Come se ogni libro fosse un piccolo fallimento riuscito”. Altrettanto enigmatica la ragione per cui ci si dimeni nella dualità tra scrittura e vita. Scrivere è anche sottoporsi a continue trasfusioni, donare la propria linfa al mondo perché il mondo conservi traccia della donazione. Restano pietra miliare per Di Paolo le parole di Truman Capote nella prefazione di Musica per camaleonti: “Poi un giorno mi misi a scrivere, ignorando di essermi legato per la vita a un nobile ma spietato padrone. Quando Dio ti concede un dono ti consegna anche una frusta; e questa frusta è intesa unicamente per l’autoflagellazione”.

 

Titolo: Scrivere è un gioco di prestigio
Autore: Paolo di Paolo, Stefano Giovinazzo
Editore: Edizioni della Sera
Dati: 2010, 68 pp., 5,00 €

Vita segreta di una fanciulla senza mani

Possono nuocere gravemente a chi le fraintenda o ne minimizzi la forza d’urto. Sono racconti per adulti “svezzati”, le fiabe. Cartine di tornasole, rivelatori dell’inconscio, “metaldetector” dell’anima, delle sue deviazioni e dei conflitti che la trascinano in gorghi e derive dolorose. Sono cruente, le fiabe. Aggiungono peso al peso della vita. Tra le altre che hanno avuto maggior fama, “La fanciulla senza mani” dei fratelli Grimm si distingue per crudezza e brutalità insuperate. C’è di più che la semplice trascrizione di una tradizione popolare orale. L’impatto poi, è doppiamente forte se la fiaba, che è la storia di una mutilazione, è interpretata da un personaggio “scomodo”: Eugen Drewermann, altrimenti conosciuto come “il Galilei della Westfalia”. Oggi Drewermann, ex sacerdote, è teologo e psicoterapeuta. La sua lettura della Bibbia, della teologia e dei modelli ecclesiali basata sulla psicologia del profondo ha provocato anni fa la reazione allarmata della Chiesa (tramite l’allora cardinale Ratzinger) che lo ha tacciato di gnosticismo e sincretismo e ridotto allo stato laicale, finché si è consumata la rottura definitiva. Il teologo “super-protestante”, di una specie umana che sarebbe piaciuta a Jung, non a caso ama inoltrarsi nei miti e nella lettura dei simboli in cui rintraccia il divino: da qui la sua familiarità con le fiabe che perlustra e svela ben oltre il significato letterale. Tra esse, “La fanciulla senza mani. Un’interpretazione della fiaba dei fratelli Grimm sulla base della psicologia del profondo” nella curatissima edizioni Magi, con testo della fiaba incluso e pregevoli illustrazioni.

Alla lettera, la fanciulla senza mani è la storia della figlia di un mugnaio, di quelle figlie naturalmente “buone” e timorate che non danno problemi ai genitori. Che si vuole di più? Il mugnaio però è caduto in miseria, non ha che il suo mulino come proprietà redditizia, giacché la figlia è proprietà inerte. All’uomo si manifesta una forza soprannaturale, una a caso, il diavolo. Gli promette molte ricchezze in cambio di ricevere ciò che è dietro il mulino. Il mugnaio crede che alluda a un melo; il diavolo intende la figlia. L’equivoco dura poco:  il mugnaio sigla il patto. Nessuno vuole il male dei propri “cari” in questa fiaba, ma una ineluttabile necessità impone che qualcuno si debba sacrificare. Il padre decide, la madre è marginale. Trascorsi 3 anni, il diavolo viene a prendere la ragazza, ma per ben due volte fallisce perché lei improvvisa riti d’esorcismo che lo bloccano. Il maligno se la prende parecchio “a male”: intima al padre di tagliare le mani della figlia, perché la deve avere a forza. L’opposizione del padre è timida e di breve durata, il peso della paura è più forte;  è tanto dispiaciuto, lo dichiara pure, ciononostante obbedisce al diavolo e mutila la figlia.  Ma anche la terza volta il diavolo fallisce: la fanciulla ha pianto così tanto sui moncherini che il maligno non ha più alcun diritto su di lei. Inizia la seconda parte del racconto. La fanciulla senza mani e con i moncherini legati dietro la schiena, si stacca dalla casa e affronta il mondo. All’arrivo in un giardino di una reggia, grazie all’intervento di un angelo, al chiarore della luna, può sfamarsi cibandosi di una pera. Ma i frutti sull’albero sono contati. Scambiata inizialmente per uno spettro, viene scoperta dal re che se ne innamora subito; la porta al castello, la sposa,  fa realizzare per lei due mani d’argento. Sarà questa la felicità? Niente resta uguale, niente dura mai troppo a lungo. Il re deve partire per la guerra. La ragazza intanto partorisce un bel bambino. Il diavolo si inserisce ancora nella storia attraverso falsificazioni di messaggi che provocano l’effetto voluto: incomprensioni, allontanamenti. Il re crede che la sposa abbia dato alla luce un mostro e ordina di ucciderlo. La fanciulla è costretta a lasciare il castello, mettersi di nuovo in viaggio con il neonato che ha chiamato “Doloroso”, finché approda in una casetta con un’insegna che dice “qui si alloggia gratuitamente”. La accoglie una giovane virginea. Talmente la fanciulla si dedica nei successivi 7 anni alla cura di sé e del bambino, che per miracolo le mani le ricrescono. Il re, appresa la verità sulla moglie, la va a cercare, finché la trova. Dopo iniziali dubbi, la riconosce; la coppia si riunifica, la famiglia è salva.

Quanta sofferenza e strazio in questa fiaba per arrivare dopo lunghi anni a una ricomposizione in nome di una vita pacificata. Perché? Solo questione di fortuna o sfortuna? Destino? Sì nel senso che il destino umano è “lunare”, annota il teologo che scorge una derivazione della fiaba in questione proprio dalla mitologia della Luna. Ecate con la sua duplice natura, visibile-invisibile in cielo, è un po’ “garante metafisico della speranza umana, una prova concreta che nella vita dell’uomo esiste un elemento invisibile: il ritorno di chi si era perso, di chi era fuggito, la resurrezione dei morti, la rigenerazione di chi è stato mutilato per sempre, la salvezza grazie al potere delle lacrime, la possibilità di quello che in terra e in cielo non accade mai. Una riunione, una pace, non grazie alla scomparsa della morte, ma grazie a una nuova e immortale forma di vita”. Per resurrezione dei morti, si può intendere il risveglio alla vita di anime che vivono da morte. Ecco, trasferendo il motivo della fiaba dalla luna all’anima dell’uomo, ciò che provoca tanta sofferenza è proprio la perdita dell’anima. La “sfortuna” comincia da che il mugnaio fa il patto col diavolo. Nel bosco, luogo dell’inconscio, il mugnaio incontra la propria Ombra. Il diavolo altro non è che “il materiale psichico rimosso o indifferenziato dell’inconscio personale”, secondo la psicologia di Jung; il diavolo è quindi una forza insita in noi, una deformazione di pensieri e sentimenti, il potere dell’autoinganno che, sotto il peso di una qualche necessità, ci spinge a mutilarci, a privarci della libertà interiore, a perdere il contatto con la propria autenticità, ad abusare dei nostri cari. Attenzione dunque a non intendere la fiaba come una trovata eccentrica sopra la quale cui gli autori si son divertiti a grattugiare simboli terrifici, tanto d’effetto quanto staccati dalla realtà, avverte l’interprete; è una storia che sta parlando di noi, sta rappresentando dinamiche della nostra vita: “Questo almeno è certo: chi non è in grado di usare una fiaba come una finestra per osservare meglio una parte della realtà umana, è ancora cieco al messaggio di quel racconto: non lo sta guardando nel modo giusto”. Il diavolo “attecchisce” su chi ha le migliori intenzioni: il mugnaio è un bravo padre di famiglia, ma la necessità materiale lo rende “indiavolato”. “Il tema di questo racconto – precisa Drewermann – non è un difetto morale, ma una tragedia umana”. Il vero protagonista non è il mugnaio, “venditore di anime”, ma sua figlia e il percorso di arrivo a sé.

L’equivoco iniziale è rivelatore: in fondo per il padre la figlia è come il melo; esiste per essergli utile;  priva “di una volontà propria si lascia saccheggiare senza sosta”. Quando il padre le chiede il “permesso” di tagliarle le mani, lei dice: “Caro babbo, fate di me quel che volete, son vostra figlia”. Mai una negazione di sé fu più estrema. D’altra parte non ha scelta: soltanto se acconsente a farsi tagliare le mani, il padre resta in un orizzonte umano sia pur ambivalente e non diviene un demonio integrale. Avere le mani, poi, per una ragazza è già una colpa, un intralcio. “Ogni cosa intorno a lei è impregnata di rimproveri, accuse, sensi di colpa, cattiverie e maledizioni fatali”, annota Drewermann. La maledizione sembra legata al semplice fatto che lei esista. Se ne accorge la madre, ma a sua volta nulla può o vuole fare a difesa della figlia. La fanciulla accetta su di sé la colpa d’esistere: solo permettendo al padre di tagliarle le mani, solo con la purificazione delle lacrime, il dolore, la passività totale, la sottomissione, la rinuncia a qualsiasi desiderio personale, può sottrarsi ai sensi di colpa, alla dannazione. L’oralità frustrata dalla legge paterna si trasforma allora o in atteggiamento passivo, di chi aspetta o pretende che le sia donato senza agire in prima persona ciò che le occorre per vivere, o in rivendicazione orgogliosa di una assoluta mancanza di bisogni. È vero che la ragazza ha avuto uno scatto di coraggio lasciando la casa paterna, ma ha introiettato dentro di sé quel mondo e si relaziona ancora in modo passivo sia pure “strategico”: i moncherini diventano impropri strumenti di potere che conquisteranno la misericordia altrui per vivere. È un modo di  entrare nella vita per la porta di servizio che accomuna le fanciulle senza mani, sostiene il teologo. La realtà sembra darle ragione: approda in un giardino che è tutto un desiderio onirico, un mondo paradisiaco al contrario. Con il supporto dell’angelo che sostiene il desiderio orale, la fanciulla si permette l’effrazione delle regole: compie un furto di un frutto, lo mangia, commette “il peccato originale dell’oralità” per iniziare un processo di liberazione dal senso di colpa di una vita, dal peccato originale d’esistere. Solo macchiandosi di una colpa, prendendo l’iniziativa, può sganciarsi dal mondo paterno e collegarsi all’albero della vita. Niente di strano che l’io desiderante, avido e bulimico, prenda allora il sopravvento. Se poi, come capita alla fanciulla, incontra il proprietario dell’albero della vita che le dice: “anche se tutti ti hanno abbandonato, io non ti lascerò mai”, qui c’è da tuffarsi a capofitto nell’oralità e lasciarsi stordire. La fanciulla lo fa: non le sembra vero di poter passare dalla modalità proibitiva –  repressiva del padre alla modalità elargitiva dell’innamorato che assume l’aspetto di un signore, di un re, diventa il fondamento della sua esistenza. Peccato che sono due facce della stessa medaglia e la fanciulla “continua a vivere nel mondo paterno, solo da un’altra prospettiva”. L’ingresso al giardino è regressione all’aspettativa orale, attesa del dono altrui in assenza di qualunque sforzo proprio. Passività anche questa.

Il re le fabbrica mani d’argento, belle a vedersi, ma le impediscono di raggiungere un’autonomia, di afferrare le cose, di impattare con il mondo. Il paradiso dura poco. Sorgono incomprensioni, il diavolo è forza che divide; il re che va in guerra è emblema di una distanza dall’amata, vincono gli equivoci mentali: ognuno porta antichissime paure e diffidenze nella relazione. Forse quasi “peggiore di tutte le limitazioni dell’infanzia è l’effetto delle ferite che gli amanti possono infliggersi reciprocamente”. Non resta che allontanarsi, abbandonare un mondo che appariva paradisiaco e salvare il bambino, l’immagine del proprio Sé. “Se già era stato difficile abbandonare le premure dell’ambiente paterno, per quanto duro e oppressivo, tanto più arduo deve essere adesso voltare le spalle a un mondo in cui le erano state donate le mani d’argento”. L’ultima svolta sembra la disperazione totale. Ma nel distacco, altrove, nella casa dove l’ospita una vergine vestita di bianco, si può ricominciare e ritrovare l’innocenza. Quando la fanciulla senza mani matura la consapevolezza che se si mette a fondamento della propria esistenza un altro, che sia un padre che è un diavolo o il migliore dei re, comunque si perde la propria vita. L’angelo aiuta la fanciulla a portare il bambino al seno, e finalmente può riconoscere e vivere desideri e bisogni propri.  Allora la rassegnazione svanisce, i miracoli si compiono: le mani ricrescono, la vita si risveglia, come fosse per la prima volta la conquista della posizione eretta. Per Drewermann questa fiaba  descrive “il vero miracolo della nostra vita”, ovvero la capacità di accogliere ciò che lui definisce “la grazia divina” nell’esistenza; un fenomeno soprannaturale. Fuori di ogni prospettiva soteriologica,  il miracolo è la guarigione, e la guarigione è  sciogliere i conflitti psichici senza andare dannati o persi.  La fiaba insegna che la forza dell’ostacolo è il mezzo di cui la vita si serve perché ciascuno possa realizzare le sole nozze sacre: quelle con la propria anima.

 

 

 

Titolo: La fanciulla senza mani. Un’interpretazione della fiaba dei fratelli
Grimm sulla base della psicologia del profondo
Autore: Eugen Drewermann
Editore: Ma. Gi.
Dati: 2007, 60 pp., 16 €

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La Sirenetta: storia simbolica di una piena evoluzione interiore

Le fiabe non sono mai state zuccherosi incantamenti per favorire il sonno dei bambini (degli adulti, peggio che mai). Le fiabe non sono mai state fiabe pure e semplici. Tantomeno invenzioni rassicuranti. Eppure, noi che amiamo tanto sostare in zona io, noi tutti dediti all’esercizio del controllo, noi che ci deliziamo a sentirci adulti e tanto smaliziati, padroni in casa nostra, perduto lo stupore dell’infanzia, continuiamo a leggerle o invocarle, sia pure tramutate in linguaggi cinematografici o pubblicitari, con un’ingenuità grossolana, persino irritante. Da fruitori passivi, finto tonti, sordi alle voci di dentro. Come se non sapessimo che se le leggiamo è perché ci raccontano qualcosa di molto familiare, sono il ponte con il nostro mondo interiore, riecheggiano zone d’ombra lasciate crescere incolte, da quel dì. A ciascuno la sua fiaba: racconterà, il proprio mito personale o nucleo nevrotico, che dir si voglia. Benedetta sia la psicoanalisi che si affianca alla fiabe, non per soffocarle ma per spiegare l’arcano del loro esistere: se attraversano il buio fitto dove il dolore è più intricato è per indicare la cura e assumere una valenza terapeutica. Proprio così. In ciò sta la loro magia alchemica o potere di trasformazione. Motivi che svela l’analista junghiana Mariagrazia Crema ne  Il riscatto della sirenetta – Da metafora a simbolo. Il sacrificio al servizio del processo di crescita (Magi edizioni), lettura corroborante del significato della fiaba di Hans Christian Andersen, La sirenetta,  di solito letta o con accettazione fatalistica della sua fine tragica (muore lei, non noi), oppure travisata, mitigata ed edulcorata nelle versioni micro più volte proposte ai bambini.

Mariagrazia Crema, ha preso spunto dal caso di una paziente che ha letteralmente portato sul lettino la sirenetta come “alter ego” perché non riusciva a dar voce alla sua problematica esistenziale, e, dalla rilettura della fiaba (il testo integrale è inserito nel saggio) si è inoltrata nel mondo di sirene e sirenette per fare affiorare  significati profondi, transitabili a fatica alla soglia della vita diurna. La Sirenetta ha avuto talmente presa sull’immaginario collettivo che è diventata statua simbolo di Copenhagen, posta come è all’entrata del porto della città. Evidentemente è proiezione di problematiche non solo interiori, intrapsichiche, ma trans personali. Perché? Cosa racconta davvero? Cosa ci sta a dire? Nello studio articolato, si danno innanzitutto indicazioni sull’importanza della fiaba in psicologia analitica e la differenza rispetto all’impostazione freudiana. Si danno riferimenti che riguardano l’inconscio collettivo: la Sirenetta è creatura che appartiene alla “famiglia” dei mostri chimerici, la sua esistenza dalle sirene di Ulisse alle creature acquatiche, incantatorie e tentatrici che hanno attraversato tutte le civiltà, è costante nella storia umana perché immagine archetipica, creatura dalla doppia natura, femminilità fatale e seduttiva, insieme indistinto di opposti: metà pesce, metà donna, coscienza- inconscio; dentro-fuori; Eros e aggressività; spirito e materia. Nella tradizione, nota l’autrice,  la sirena o ondina, non riesce mai a uscire dalla dimensione ristretta della metafora, per approdare a quella del simbolo. In tutte le civiltà è e resta metafora, sintomo di una impossibilità di uscire dall’ambivalenza che “promette amore e conoscenza ma poi fa inabissare i naviganti”.  Per la prima volta, invece, il personaggio creato da Andersen, accede al simbolo unificatore: contempla il sacrificio, secondo la suggestione romantica che, al di là di letture riduttive, solo può portare a una vera crescita interiore e a un’evoluzione spirituale. Doveroso per sommi capi, un cenno alla fiaba di Andersen: alla Sirenetta, principessa del regno del Mare, è concesso visitare la superficie del mare compiuti 15 anni.  Appena li compie, sale a galla,  si innamora di un principe al comando di una nave che poi affonda per una tempesta. Lo salva dai flutti e lo porta a riva. Tormentata dal desiderio di diventare umana per stare accanto a lui e acquisire un’anima immortale (non concessa alla sua specie, destinata con la morte a trasformarsi in spuma di mare), si fa preparare dalla Strega del Mare una pozione per avere gambe anziché coda e in cambio rinuncia alla propria voce. Le viene tagliata la lingua, e ogni passo sulla terra sarà per lei come camminare sulla lama di un coltello. Solo se conquisterà l’amore del principe, potrà avere un’anima immortale, altrimenti si dissolverà in schiuma. Seppure accolta alla corte del principe, è da lui considerata una sorella minore. Il principe sceglie di sposare la principessa che lo ha ritrovato sulla spiaggia il giorno del naufragio. Le sorelle allora vengono in suo aiuto con un pugnale magico per uccidere il principe e tornare a essere sirena, ma lei rifiuta, muore, si dissolve in schiuma. La schiuma evapora e la trasforma in brezza, figlia dell’aria, forma nella quale le è permesso piangere.

La fiaba di Andersen risente certo delle influenze culturali del suo tempo, ma soprattutto della travagliata storia personale dell’ autore: “figlio di un calzolaio malato di mente e di una lavandaia, egli è uomo dalla personalità problematica, sofferente” che ricorre alla sirenetta per raccontare “la storia di un outsider della sessualità”. È una fiaba, quindi, che  ha avvio a partire dall’impossibilità a dire e dirsi chi si è. La sirenetta è personaggio che manca di un centro ed è portatrice, si direbbe oggi, di un disturbo narcisistico di personalità. L’autrice individua più chiavi interpretative (collettiva, personale, inerente il sé) da scoprire nella lettura diretta del saggio. La sirenetta vorrebbe far parte del mondo degli uomini perché questo significherebbe affrancarsi dagli abissi, dalla prepotenza inconscia del femminile, dar “voce” alla tensione evolutiva, raggiungere l’anima e l’immortalità. Nel contempo agiscono in lei tendenze masochistiche regressive: forte è il richiamo della strega del mare, la “madre negativa” che la chiama alla dolorosa alternativa gambe/voce e le permette, infine d’essere umana a cominciare da un’amputazione d’origine: la mancanza della voce. Potrà mai una donna realizzare il proprio Sé (la pienezza della propria identità, l’essere integrale che contempla e integra gli opposti) privata di voce e dovendo sperare nell’amore di un uomo per stare al mondo e avere un’anima immortale? Se proietterà il suo Animus all’esterno e l’affiderà a un uomo, come potrà mai portare fuori, nel mondo, alla coscienza, la sua identità e integrare gli opposti? Che vita è  una vita che si regga solo sull’amore di un uomo? Tra l’altro lei salva il principe, ma costui non sa chi l’ha salvata, non coglie il valore del salvamento, e, una volta che la sirenetta non è più tale e ha perso il potere di seduzione, la ama come una sorella. E qui entra in gioco la novità. La morte della sirena non è il fallimento di una ricerca d’identità, né una tragica fine, ma il faticoso processo per trovare davvero la propria soggettività. Novità a un tempo realizzata da Andersen nella sua versione diversa di una sirena che dà nella fiaba, e dall’interpretazione psicoanalitica di Mariagrazia Crema. La sirenetta è portatrice del bisogno di porre fine a una disarmonia tra conscio e inconscio e di un bisogno evolutivo dello spirito. Le forze in azione nella personalità si devono prima differenziare, quindi integrare: il Sé ha bisogno di umanizzarsi perché è tramite l’io che può entrare nella vita reale, così come l’io e la coscienza nati “dall’esperienza della separazione e della sofferenza umana” hanno bisogno del Sé.

Questa ricerca di unità non può portare fuori di sé, le istanze non possono essere proiettare all’esterno, pena la sconfitta. La sirenetta fallisce quando resta ancorata alle proiezioni e cerca di approdare alla conquista della sua anima, riducendosi a poca cosa, appoggiandosi all’amore di un uomo. Non potrà diventare donna se non riconosce nella psiche le zone limacciose della regressione. La strada, non è il sacrificio di sé ma “il sacrificio per sé”. Il vero riscatto, il vero inizio è nel rifiuto di tornare al mondo marino (regno delle sorelle, della femminilità primigenia, dell’inconscio torbido) ma anche nel non cercare la “scorciatoia” attraverso l’amore subalterno. La svolta sta nel non voler uccidere il principe come chiesto dalle sorelle “emissarie” della madre negativa, nel lasciarlo andare alla sua storia senza più attaccamenti, invidie e proiezioni, nell’accettare la propria sorte, a cominciare dalla solitudine. Solitudine di un’anima che sconta un destino innocente e sofferto, ma sceglie  di lasciarsi alle spalle difese e fallimenti, riconosciuti e visti,  mettersi in viaggio senza più punti di riferimento. Potentissima immagine: la sirenetta accetta la propria morte, ma torna in mare da donna completa, in contatto con il proprio centro. Nella morte si fa schiuma perché si infrange la difesa narcisistica, l’io è morto, s’innalza il sé, s’innalzano al cielo le parti vive, si fa figlia dell’aria, “messaggero di speranza e libertà, luce e calore indipendentemente dalle aspettative maschili”. La sirenetta, trasporta così dalla metafora al simbolo unificatore dell’essere, la storia, non già di una drammatica fine, ma di un processo d’individuazione autentico. Un salto abissale dal meschino regno dell’io all’inesauribile Sé.

Titolo: Il riscatto della sirenetta. Da metafora a simbolo:
il sacrificio al servizio del processo di crescita
Autore: Mariagrazia Crema
Editore: Ma. Gi.
Dati: 2010, 97 pp., 12,00 €

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Chiesa, la "salvezza" in 10 slides. Quando il vero pastore di anime è un pubblicitario

“Pensai a quanto è buffa la vita: io, ex hippy ed extraparlamentare, oggi professionista inappuntabile che mi ritrovavo a prendere il tè pomeridiano con un cardinale”. Tè indiano e biscottini secchi con un alto prelato non per spontanea convivialità, ma per parlare di rami, arbusti, patriarchi, tutti secchi o rinsecchiti, della “più grande multinazionale del mondo”, sia pure acciaccata, traballante. Strana cosa, davvero, l’esistenza se il giro del sole ti fa ritrovare dopo molti anni nello stesso scenario, ma in un contesto di segno diametralmente opposto. La prima volta il protagonista era a Trastevere in un lettone pieno di lettere (tra Fernanda Pivano e Mauro Pagani della Premiata Forneria Marconi) che funzionava da redazione atipica, di una testata sui generis, Fallo (giornale del movimento hippy italiano). A distanza di anni, è di nuovo a Trastevere, ma in un attico con vista mozzafiato su Roma, a prendere il tè con un cardinale che gli affida un incarico straordinario: trovare la cura per guarire un malato grave, forse terminale, la Chiesa cattolica. Lui accetta la sfida, fa la diagnosi e trova persino la cura, in 10 mosse, o meglio in 10 slides. Curioso anche questo: in altri tempi, è toccato a un teologo, tale Martin Lutero, dare uno scossone alla Chiesa romana, ma occorsero 95 tesi, una scomunica, una Riforma, la fondazione di una nuova Chiesa antagonista che mise la capostipite ancor più sulla difensiva. Stavolta, la “salvezza”, la possibilità di salvezza per chi finora l’ha garantita agli altri, viene da un “eretico”, un pubblicitario abituato a preparare campagne per multinazionali del largo consumo e a rifare l’immagine ad aziende in crisi. Comprese aziende dell’energia elettrica, ma mai prima d’ora della luce eterna.

Sembra una storia folle, inventata da un qualche cappellaio matto, più matto del destino e dei suoi giochi trasversali. Questo e altro capita a Bruno Ballardini, esperto di comunicazione strategica e marketing, come lui stesso racconta nel libro Gesù e i saldi di fine stagione: un’esperienza talmente assurda da sembrare irreale, un’eccellente invenzione romanzesca, il colpaccio di una fantasia sghemba, una magnifica sceneggiatura per un film originale e riuscito come, sincronicità, lo è il simultaneo Habemus papam di Nanni Moretti, affine per tematica e originalità. Ma qui siamo nella vita vera, checché se ne dica. Un committente davvero insolito affida una missione altrettanto anomala: elaborare un’analisi delle ragioni della crisi da saldi di fine stagione, ma soprattutto definire strategie per uscirne. Non un’azienda qualsiasi,  ma quella che ha inventato il marketing nelle forme più efficaci e capillari della storia umana e della comunicazione pubblicitaria. Questo Ballardini l’ha già svelato nel 2000 nel precedente libro, diventato un cult-book, Gesù lava più bianco, tradotto in 11 lingue. Abituato a essere “il padre confessore delle aziende”, accetta l’incarico anche se inizialmente strabiliato: “Cercavo un appiglio, un’idea da cui iniziare questa pazzia. Pensavo che a nessuno dei miei colleghi, sarebbe mai capitata una cosa del genere, e in qualche modo ero un predestinato. Ma questo pensiero non mi tranquillizzò per niente, anzi non fece che aumentare la mia ansia”.  Fatto sta che se all’inizio si “limita” a dare lezioni private di marketing al cardinale (è o non è un pezzo da cinema?), l’impresa culmina poi in una relazione tenuta alla Pontificia Accademia delle scienze, nel cuore del Vaticano, davanti a un pubblico ristretto di cardinali e laici: la relazione riferisce i risultati della ricerca fatta per conto dello stesso cardinale, ed è “una strategia per Gesù in dieci slides”.

Alla fine del libro, l’autore gioca a rimescolare le carte: forse quel che è stato raccontato non è accaduto, o se lo è solo in parte, “non è detto nemmeno che il cardinale esista veramente (e se così fosse non sarei autorizzato a rivelarlo). Quelle che invece esistono e restano aperte sono le questioni di cui parla il libro, questioni urgenti per la chiesa e per la sopravvivenza stessa del cristianesimo”. Questioni così urgenti che Ballardini, quasi da “partigiano” della causa, infrange la riservatezza, rielabora i dati acquisiti, scrive il libro riepilogativo dell’esperienza fatta e lo pubblica, convinto che se c’è, come c’è, una fronda interna alla Chiesa, il lavoro non potrà che dare un contributo a un processo necessario di rifondazione. Documentato ma al tempo stesso impertinente, provocatorio con arguzia e a  ragion veduta, Ballardini fa le pulci ai tanti guasti dell’impresa, e si immerge in questioni intricate e complicatissime nel nome del marketing. Ecco un piccolo campionario di cosa non va, del perché la più grande multinazionale del sacro arranca alla prima crisi del mercato globale. La crisi è totale: scandali a oltranza, amministratore delegato non all’altezza del ruolo, gerarchie distanti o troppo invasive, visione e mission della Chiesa confuse, dirigenza che teme il cambiamento, crisi di comunicazione, crisi dei fedeli, concorrenza interna e quindi troppe linee di marketing, concorrenza esterna sempre più agguerrita, con nuovi culti che permettono volendo di restare cattolici in maniera indolore. Ballardini lo dice: “Io sono solo un uomo di marketing e comunicazione, mi occupo di strategie. Non ho fatto altro che applicare i principi aggiornati della mia disciplina in un ambito che non mi appartiene”.

Con dovizia di particolari, l’autore spiega perché la Chiesa non vende più,  dedica una parte del libro ad analizzare quali e quanti sono i concorrenti interni; un’altra ai nuovi culti, neopagani ed esoterici che rappresentano la minaccia esterna. C’è molto da imparare anche per noi consumatori, spesso passivi o abitudinari, di ogni genere di prodotto, sacro compreso. Anche la Chiesa pecca e molto: non ha chiara la differenza tra marca e marchio. La marca è il brand, “l’essenza del prodotto, il suo significato, la sua direzione, ciò che ne definisce l’identità nel tempo e nello spazio”, quindi “il luogo in cui convergono la storia passata e futura del prodotto, i valori dell’impresa, la sua identità e l’esperienza dei consumatori”. Se “la Chiesa è il brand, il prodotto è la dottrina, il marchio è la croce”. Ed è questo il punto: la Chiesa è una “marca di marche”, una holding con troppe partecipate (Opus Dei, Comunione e Liberazione, Focolarini, Legionari di Cristo, Comunità di sant’Egidio, ecc.), che a loro volta per espandersi utilizzano “una forma di franchising” in una frammentazione che supera persino i nostri comunisti con i loro quattro partiti. Il “padre confessore” delle aziende propone innanzitutto di unificare la marca, ritirare le deleghe, far tornare le parrocchie a essere la “rete vendita” per eccellenza e i preti la “forza vendita” per fidelizzare nuovi e vecchi credenti. Ballardini dice di essere solo  un uomo di marketing. Eppure, nel suo dossier c’è qualcosa di più di una summa di regole da applicare. C’è molto di più della consulenza specialistica. Anche questo può suonare paradossale e lo è: c’è un senso del sacro nelle 10 slides, oltre l’abilità di un professionista che traccia la via di sopravvivenza a un’azienda in crisi. Ballardini auspica il ritorno a un’unica Chiesa, di più a un unico cristianesimo, quelle delle origini “forse più liquido, ma più semplice, puro, essenziale”.

Più che un esperto di marketing, sembra nel capovolgimento di tutti i fronti di quest’epoca, la vera guida spirituale che non si scorge tra i professionisti del culto, specie quando invoca come unica strategia della chiesa quella di non averne nessuna, perché strategia non è neanche roba da mercato, ma da guerra, gente in armi. O quando, altro che esercizi spirituali, invoca l’abbandono di ogni forma di colonialismo religioso, il ritorno all’etica evangelica, perché la convinzione religiosa è fenomeno interiore.  E non finisce qui. Raggiunge punte poetiche quando alle settima slide invoca un lavoro di archeologia spirituale e simbolica, per riappropriarsi di riti antichi, perché l’uomo ”sia aiutato a entrare in se stesso, a interrogarsi sul senso del proprio destino, a cercare in sé quel “lume di eternità” che abita il cuore di ciascuno”. Insomma, suggerisce di accorciare le distanze tra religiosità e spiritualità,  causa di tante perdite di anime; ministri della Chiesa che siano maestri di spiritualità e non impiegati della religione o teologi in carriera. Aria e luce trapelano nelle stanze asfittiche. In fondo cerchiamo tutti figure credibili che ci aiutino a riconoscere il sacro che abita in noi, che ci educhino a santificare non i giorni di festa comandata, ma quelli più vili, fallimentari, cupi.

Siamo assetati di senso e di sacro, anche se non osiamo dirlo,  a cominciare forse da alcuni alti prelati. Ballardini trova la “manna” in terra: la risposta è in un concilio di rifondazione “pastorale ed ecumenico”. Più che il concilio vaticano III, il concilio 3.0 perché “userà tutti gli strumenti del social web”. Qui c’è molto di più di un piano d’azione, c’è un anelito a una religione universale e mistica perché umana, che ha il sapore dell’utopia. Certo è che una religione così verrebbe voglia di seguirla subito, anche senza possibilità di sconti.

 

Gesù e i saldi di fine stagione. Perché la Chiesa non «vende» più
di Bruno Ballardini  – Piemme – 2011
Prezzo: € 16.00

Facebook: tutti sull’arca virtuale per aggirare la paura

“Una società può essere definita ‘liquido-moderna’ se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure… In una società liquido-moderna gli individui non possono concretizzare i propri risultati in beni duraturi: in un attimo, infatti, le attività si traducono in passività e le capacità in incapacità… La vita liquida è una vita precaria vissuta in condizioni di continua incertezza… La vita nella società liquido-moderna non può mai fermarsi. Deve modernizzarsi o perire”.  (Bauman)

Attenti al numero di Dunbar (che non è l’elefantino Dumbo, ma un professore di antropologia evoluzionistica a Oxford): per limiti insiti nella corteccia cerebrale e nel corredo genetico non è umanamente possibile avere più di 150 amici.  Facebook, invece,  istiga alla bulimia delle “amicizie” e ha anche altre controindicazioni. L’allerta la dà Zygmunt Bauman: Facebook sancisce la fine dell’intimità e il trionfo dell’esibizionismo. La sua conferenza, uno degli appuntamenti più attesi della seconda edizione della “Festa del libro e della lettura” all’Auditorium della musica di Roma, comincia puntuale e si prolunga oltre i sessanta minuti. Il tema è di sicuro richiamo perché, dichiarati persino con orgoglio da possidenti o defilati, siamo tutti o quasi utenti di un qualche social network, implicati in una stessa condizione non ammessa e magari neanche pensata di unhappiness o di sospensione di stato, talvolta prossima al vuoto che però non è il vuoto zen. Emblematica la correlazione tra il tema della conferenza e la risposta del pubblico in quanto a presenza in sala: sommatoria di individui in cerca di un arbitro dell’intelligenza che ci spieghi in che razza di mondo virtuale galleggiamo negli stessi giorni di avvenimenti disperati e tragici nel mondo reale. Chi più del sociologo polacco, classe 1925,  considerato il teorico della post-modernità perché ha formulato o meglio fatto affiorare la condizione “liquida” che riguarda il nostro tempo, può dirci chi stiamo diventando?  (Tra le sue opere, e i titoli sono già eloquenti: L’arte della vita, Consumo dunque sono; Vite di scarto; Paura liquida; Modernità e olocausto, La società individualizzata: come cambiare la nostra esperienza). Nella liquidità, che è condizione di precarietà dentro e fuori, e dunque di fragilità e senso di inadeguatezza, in questa liquidità prossima alla deflagrazione di ogni senso, ultimo “traguardo” è il trasferimento dell’umanità, almeno 500 milioni di utenti (cifre che lo stesso Bauman dà) sull’arca virtuale di Facebook, mezzo “liquido” per eccellenza della condizione post-moderna. Cita Gramsci l’esule polacco, il Gramsci che parlava di “interregno” per dire che il fenomeno è recente ed è troppo presto per dire se il mezzo ha trasformato una volta per tutte la storia della cultura,  o siamo in una fase di esplosione che poi in parte rientrerà negli argini e troverà un suo equilibrio. Ancora è presto e la giuria non sa se assolvere o condannare il social network, inventato (o secondo alcuni è un’idea rubata), da Mark Zuckerberg nel 2004 a uso degli studenti di Harvard e da allora arrivato a conquistare il pianeta: una miniera d’oro visto che il prezzo di mercato stimato si aggira intorno ai 50 miliardi di dollari, secondo i dati riferiti da Bauman, ogni utente vale circa 100 dollari, con una frequentazione pari a 700 miliardi di minuti al mese per ciascun utente, o se la cifra fa troppo paura, una media di 40 minuti al giorno.

Il movente fondamentale del grande esodo è la paura, insita in ognuna di noi, accresciuta dal mercato e dal nostro status, ormai permanente, di consumatori (ma questa per Bauman non è una novità). Perché ci siamo trasferiti in massa sulle bacheche virtuali? Il miraggio di emergere dalle tenebre, sfuggire alla morte, all’anonimato, alla piaga dei tempi liquidi che è l’esclusione, attrae persone di ogni condizione, cultura, età. L’esigenza di trovarsi nella comunità – virtuale – è forte. Bauman cita un pubblicitario, George Rose, per chiarire la questione: “Internet riflette la nostra umanità, mostra ciò che sta dentro di noi. La necessità d’essere presenti sul mercato del prestigio, del successo, del riconoscimento degli altri nella condizione di fragilità che contraddistingue la vita liquida moderna”. Certo l’effetto speciale c’è: il meccanismo avvicina in apparenza chi è lontano e allontana chi è vicino. E perché? Bauman spiega che la rete è un succedaneo, un tappabuchi che riempie il vuoto lasciato dalle comunità che stanno scomparendo. È facile e indolore il sistema: in un minuto si crea, la rete, in un minuto la si disfa; con un colpo di mouse si cancella un amico, senza imbarazzo o dispiacere o, peggio, sensi di colpa. Mentre la comunità pur essendo affidabile è vincolante. La facilità si paga: pokare (stuzzicare tramite la tastiera) non è abbracciare, la quantità di contatti non è la qualità, in rete aumenta il contrasto tra superficialità e profondità. E poi c’è la faccenda dei numeri. In condizioni biologiche normali più di 150 amici in testa non c’entrano proprio, hai voglia di caricare in bacheca vagonate d’amicizia. O è vetrina, o è mania di onnipotenza esibita, o entrambe le cose. “Ultimamente – ha raccontato Baumann – un entusiasta “utente attivo” di Facebook si vantava di riuscire a fare 500 nuovi amici al giorno, più di quanti ne abbia acquistati io nei miei 86 anni di vita. Ma come osserva Robin Dunbar la nostra mente non è stata predisposta (dall´evoluzione) a consentirci di avere, nel nostro mondo sociale, più di un numero assai limitato di persone. Questo numero Dunbar l´ha addirittura calcolato, scoprendo che un essere umano non riesce a tenere in piedi più di circa 150 rapporti significativi”. Certo si possono anche avere 5 mila amicizie “ma tutte, eccetto il nucleo duro dei 150 amici sono voyeur che ficcano il naso nella vostra vita quotidiana”. La rete realizza un valore primario in questa società: levare di mezzo tutti i fastidi associati ai rapporti umani reali. Bauman cita anche lo psichiatra e psicoanalista Serge Tisseron, secondo il quale i rapporti considerati “significativi” sono passati dall´intimité all´extimité, cioè dall´intimità a ciò che egli chiama con neologismo “estimità”.  Non conta aprirsi, ma mostrarsi. “Siamo tutti consumatori, si sa e sul mercato di Facebook ci stiamo autopromuovendo, ci vendiamo in maniera remunerativa”. E in questo la vecchia Europa ancora deve raggiungere i “magnifici” traguardi dell’Estremo Oriente. L’esempio della Corea del sud è decisivo: esistere è esistere sul social network. “è una questione di vita e di morte, non morte biologica ma sociale. Se non giocate secondo queste regole siete esclusi. Chi osa non collegarsi al cyber world è escluso. Coloro che hanno a cuore la loro invisibilità oggi sono respinti, emarginati o sospettati d’essere criminali”. L’apprendistato dei teenager alla carriera di bravi consumatori è questo e solo questo in Corea.

Scomparsa la vergogna, liquidato il senso del pudore e declassato da comune a fuori del comune perciò irregolare e sinistro, non resta che la “cultura del confessionale”  attraverso il microfono, la webcam, la tastiera. E la confessione non è più momento d’intimità ma d’estimità. Bauman, assertore instancabile dell’idea che “fare sociologia ha senso solo nella misura in cui aiuta l’umanità nel corso della vita”, non dà soluzioni e preferisce differire il giudizio al poi: quando la corte, superato l’interregno, avrà acquisito prove sufficienti. Invita solo a scegliere “sempre pensando all’impatto che nasce dall’accettazione di questi schemi che regolano la nostra vita, la nostra capacità di aiutare gli altri, vivere insieme in maniera umana, dignitosa”. Restano due valori imprescindibili per una vita, neanche felice, vivibile: la sicurezza e la libertà. “La sicurezza senza libertà è una schiavitù, la libertà senza sicurezza vuol dire vivere nel caos completo. Ogni cultura cerca sempre un compromesso tra sicurezza e libertà, anche in quest’epoca non abbiamo trovato il giusto mezzo, ma continueremo sempre a provare”.

La stampa: se non ci fosse non bisognerebbe inventarla, parola di Balzac

“Se la Stampa non esistesse, non bisognerebbe inventarla”: dal tono perentorio si capisce senza possibilità di fraintendimento che la frase non vuole essere un’opinione, ma è un vero e proprio assioma, secondo le precise indicazioni dell’autore. Che non è in ordine di tempo l’ultimo fuoriuscito dal formicaio,  l’ultimo ribelle “antisistema” partorito da qualche attuale divergenza pubblica e privata, il grillo del caso. Chi scrive questa frase, dall’alto della sua grandezza e  delle sue ambasce, fallimenti compresi in qualità di giornalista, stampatore, tipografo, editore, è uno scienziato della realtà. Tale si considera e di fatto lo è stato. È il 1843 quando Honoré de Balzac, in quella fase scrittore affermato e di successo, pubblica un pamphlet dal titolo Monografia della stampa parigina, altrimenti noto con il titolo de I giornalisti.

L’ideatore e realizzatore dell’insuperato affresco da lui denominato Comedie humane, (colossale ciclo di 137 romanzi con circa 2 mila personaggi), studia con occhio da etologo il funzionamento della società e niente e nessuno sfugge al suo sguardo, anche e soprattutto le categorie  a lui più invise, politici e giornalisti. Certo Balzac era uomo ambizioso che non ammetteva le sconfitte, anche megalomane, capace di abbracciare progetti tanto fantasiosi da essere assurdi, compresa l’idea di avviare coltivazioni di ananas nella regione parigina o di avviare lo sfruttamento in Sardegna di miniere d’argento già abbandonate nell’antichità. D’altra parte, Il ritratto che di lui fa Baudelaire, è eloquente: “Il cervello poetico tappezzato di cifre come lo studio di un finanziere. L’uomo dai fallimenti mitologici, dalle imprese iperboliche e fantasmagoriche». E avrà avuto più di qualche sasso da levarsi dalle scarpe, come giornalista, ideatore e direttore di riviste giornalistiche poco riuscite, anzi fallite; avrà accumulato rancori e più di qualche desiderio di vendetta nei confronti di un mondo che in più occasioni gli ha sbarrato le porte e ha tramutato i suoi sogni in insuccessi. Fatto sta che questo pamphlet, troppo poco noto, è di “abominevole” attualità. Passa alla lente della critica tutti i tipi umani e psicologici che affollavano il panorama giornalistico, in base ai criteri della nascente sociologia. Intriso di ideologia positiva, certo, non meno lo è di acido solforico e qualche traccia di cianuro. Sembra una fredda indagine scientifica, se non fosse che l’animus rutilante e corrosivo dello scrittore tiene banco e morde anche là dove sembrerebbe limitarsi a catalogare tipologie umane, fino a restituire un quadro impietoso della Stampa. Più che protagonisti di fatti, i signori del giornalismo lo sono di misfatti. Il libello polemico e mordace merita d’esser ripescato, letto, o riletto, se non fosse che l’edizione italiana in cui l’abbiamo rinvenuto (Abramo, 1993) è avara di note, quando invece occorrerebbero di supporto all’aspetto “datato” del libro: qua e là riferimenti impliciti a fatti, situazioni, personaggi, certo avversari, meriterebbero indicazioni specifiche per apprezzare a pieno l’opera.

Ma vediamoli i signori giornalisti all’opera. Balzac individua due grandi insiemi: “il pubblicista” e il “critico”, come fossero due specie animali finalmente scoperte e catalogate. Nel formicaio parigino di sfrenate ambizioni di successo e ascesa sociale, i giornali in fase d’affermazione durante la monarchia borghese di Luigi Filippo, fanno bene la loro parte e si riempiono di arrampicatori di vario genere. Ecco perché Balzac individua per ogni specie tanti sottogeneri. Nel genere pubblicista rientrano tanto il giornalista che l’uomo di stato (che si dà alla carriera politica), il panflettista, il nientologo, il pubblicista col portafoglio, lo scrittore monobiblico che ha scritto una e una sola opera che ripropone in ogni scritto, il traduttore, l’autore con le certezze. Nel genere critico, rientrano il critico della vecchia guardia, il critico biondo, il grande critico, il feuielletonista, il costellato mondo dei piccoli giornali. La casistica individuata prevede, inoltre, che ogni sottogenere contempli un sottoinsieme di varietà. Il giornalista ne ha cinque: direttore-redattore-capo, proprietario-gestore, tenore, fabbricante di articoli di fondo, factotum, camarillista. Il giornalista uomo di stato sottintende quattro varietà: uomo politico, attaché, attaché-distaccato, politico con gli opuscoli. Non meno articolata la costellazione dei critici. Il critico della vecchia guardia è universitario o mondano. Il giovane critico biondo, può essere negatore, burlone, incensiere. Il grande critico può presentarsi in qualità di giustiziere delle grandi opere, o “eufuista”. Infine il piccolo giornalista si ripartisce in cinque tipi: bravo, buffone, pescatore, anonimo, guerrigliero. In questo universo composito, dunque Balzac individua trentanove tipi che dominano la stampa parigina. Potrebbe esser divertente, un improprio gioco di società, cercare le corrispondenze nella situazione italiana d’oggi. Non si rischierebbe di non trovarle.

Intanto, qualche definizione, più da vicino, per vedere come lavora Balzac. Spesso la caricatura si spinge a tal punto di riprodurre  gli stili degli odiati colleghi,  fare il verso ai loro articoli (ecco perché note di supporto avrebbero agevolato la lettura). Ogni descrizione di un tipo termina con un assioma: feroce stilettata su giornali e giornalisti. Sulla libertà di stampa: “si ucciderà la stampa come si uccide un popolo, dandogli la libertà”. Sugli uomini politici che sono “protettori” in forme più o meno esplicite di un giornale: “Quanto più un uomo politico è una nullità, tanto è migliore per diventare il Dalai Lama di un giornale”. Sulla presenza delle donne nell’ambiente: “Tutti i fogli pubblici hanno per timone una sottogonna in crinolina, assolutamente come la vecchia monarchia”. Sul nientologo, o volgarizzatore, che è “il dio della borghesia attuale, egli è alla sua altezza, è pulito, netto, senza imprevisti”, l’assioma è questo: “meno idee hanno, più ci si eleva”. I volgarizzatori,  sono necessari alle riviste, alcuni sono “beniamini del potere” e “mangiano a molte mangiatoie”.  Come non pensare agli attuali cronisti parlamentari specie televisivi e ai loro pastoni quando lo scienziato Balzac parla dei camarillisti? Costoro sono “redattori-stenografi” che devono “riferire per intero i discorsi dei deputati che appartengono al colore del giornale”, correggendo gli errori di lingua che i parlamentari fanno, quindi devono liquidare in poche righe i discorsi degli avversari politici e sempre in maniera sfavorevole. Il profeta è il “Maometto della stampa”, “nobile vittima di un’illusione generosa”; nel settario invece “la sua passione per il padrone è tale da non fargli concepire ostacoli: devoto fino all’imprudenza, è pronto a pagare di persona come Gesù Cristo per l’umanità (…) Tra la folla della gente della stampa, è una figura tanto sublime quanto rara, è la Fede! Il fenomeno più raro a Parigi”. Vi ricorda qualcuno? (Anche più di qualcuno) Il critico, in generale, si spiega così: “esiste in ogni critico un autore impotente”.  Per cui l’assioma che segue è: “la critica oggi serve a una sola cosa, a far vivere la critica”. L’incensiere, l’addetto alle lodi sperticate, è “un ragazzo senza fiele, benevolo, che fa della critica uno spaccio di latte puro (…) Pesta la rosa nel mortaio e ve la spande con una grazia da profumiere”. Il giustiziere delle grandi opere è “un ragazzo che si annoia e cerca di annoiare gli altri. La sua base è l’invidia; ma egli dà grandi dimensioni alla sua invidia e alla sua noia”.

Prima di citare l’intero libro ed essere giustamente tacciati da Honoré d’essere niente altro che pescatori di frodo, è meglio fermarsi. Quel che è certo è che i sacerdoti di questa divinità moderna sono per Balzac per lo più imbrattacarte di vario ordine e genere. Analisi di cui tener conto, magari da comparare agli studi più recenti (come il volume appena uscito  “La scimmia che vinse il Pulitzer”, di Nicola Bruno e Raffaele Mastrolonardo, Mondadori, che analizza gli attuali scenari dell’informazione mondiale e i suoi personaggi).  Balzac è fermo, il suo assioma conclusivo, come scritto sopra, è: “Se la stampa non esistesse, non bisognerebbe inventarla”. Anche se poi aggiunge: “Di fatto, c’è nelle vicende umane una forza superiore che né la discussione né le chiacchiere dell’uomo, stampate o no, possono ostacolare”.

I giornalisti
di Honoré de Balzac
Abramo – 1993
Prezzo: € 8.27