OPAC SBN non deve morire #salvatesbn

21/05 – AGGIORNAMENTO: Buone (?) notizie, già in data 7 maggio la DGBID (Direzione Generale per le Biblioteche, gli Istituti culturali e il Diritto d’autore – organo del Mibac) smentiva che l’Iccu sia a rischio chiusura e che i tagli, inizialmente previsti al 31%, sono già stati ridimensionati al 14%. (Durissimo comunque districarsi tra questi acronimi). Il direttore dell’Iccu dott.ssa Rosa Caffo rispondeva con questo altro comunicato del 10 maggio (aggiornato oggi) in cui corregge il tiro: “Il “reale” livello di allarme è questo: ulteriori tagli metterebbero a serio rischio la continuità e la qualità del servizio.”

Che l’Iccu e SBN siano effettivamente a rischio chiusura o meno ci rimane comunque la certezza che in Italia i fondi destinati alla cultura siano completamente inadeguati al Paese che più di ogni altro della cultura dovrebbe fare il suo vessillo e se si continuerà nell’opera di taglio e ridimensionamento prima o poi le strutture dovranno giocoforza chiudere o semplicemente collasseranno (come a Pompei) alla fine ci si ritroverà con in mano solo un mucchio di polvere.


Non c’è limite al degrado culturale in cui il nostro Bel Paese riesce a sprofondare: in questi giorni si fa sempre più concreta la realtà che i tagli all’Istituto centrale del catalogo unico delle biblioteche italiane (Iccu) stiano mettendo a serio rischio l’esistenza stessa dell’archivio online del catalogo unico del Sistema Bibliotecario Nazionale, il mitico OPAC SBN, che potrebbe chiudere per mancanza di fondi e di personale.

OPAC-SBN

Apprendiamo dai comunicati stampa che la situazione è drammatica e la chiusura di questo importantissimo strumento che gestisce l’archivio di oltre 5000 biblioteche italiane offrendo una serie di servizi preziosissimi per studenti, ricercatori e utenti in genere (effettua la ricerca in un database di 14 milioni di titoli) sembra inevitabile.

I numeri di OPAC sono impressionanti: oltre 2 milioni di utenti, 50 milioni di ricerche bibliografiche con più di 35 milioni di pagine visualizzate. Nel database sono presenti oltre 14 milioni di titoli con 64 milioni di localizzazioni; il servizio permette di conoscere l’ubicazione del testo, prenotare la consultazione del libro o del documento, chiederne una riproduzione e in alcuni casi il prestito.

Queste le parole del comunicato del personale dell’ICCU:

Cessare la manutenzione e rendere insostenibile l’incremento di una tale risorsa, nella solita logica di tagli indiscriminati, è, a nostro avviso, l’ennesima offesa del diritto allo studio, alla ricerca e alla crescita culturale e pertanto riteniamo doverosa questa denuncia.

La chiusura appare ormai inevitabile. Chiunque svolga un’attività di studio o di ricerca, e più in generale chiunque, in Italia o all’estero, sia interessato a ottenere in lettura un documento nell’immenso patrimonio delle biblioteche italiane conosce il Servizio Bibliotecario Nazionale e ha sperimentato l’utilità del catalogo collettivo nazionale consultabile via internet.

Adesso, taglio dopo taglio, il Catalogo unico non dispone più dei finanziamenti necessari alla sua gestione. Si e’ dovuto ridurre il livello del servizio offerte e cercare finanziamenti al di fuori del bilancio dell’Iccu.

I tagli hanno colpito pesantemente anche il personale. Da anni i pensionamenti non vengono compensati da nuove assunzioni, ma soltanto provvisoriamente e in misura minima da collaborazioni esterne. Si interrompe cosi’ il passaggio di saperi ed esperienze che da sempre ha completato la formazione dei colleghi più giovani.

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via pinobruno.globalist.it

La Storia, Steven Spielberg, Abraham Lincoln e gli Stati Uniti d'America

[rating:85/100]

L’attenzione di Steven Spielberg nei confronti della Storia non è una novità né lo è la sua passione per la nazione degli Stati Uniti d’America e quegli ideali di civiltà, giustizia sociale, libertà e democrazia che nell’immaginario collettivo discendono dritti dritti dal mito della rivoluzione americana e dei padri fondatori. È chiaro quindi che un film sulla figura storica di Abraham Lincoln possa rappresentare la summa dell’attuale cinema di Spielberg e ritengo possa anche essere un’operazione importante in questo periodo storico. Il cinema infatti rimane un mass medium di portata immensa e diffusione globale e, specie quando si tratta di un regista affermato e blasonato come Spielberg, può riuscire a spostare l’attenzione di uno spropositato numero di persone su un tema, seppur per un breve momento. E non solo: il cinema (come la televisione), benché abbia da tempo dismesso ogni ambizione di funzioni didattiche o sociali, è anche uno strumento sorprendentemente efficace per affrontare argomenti di importanza sociale e culturale e persino per fini didattici, anche se da decenni lo mortifichiamo riducendolo a futile strumento di intrattenimento e svago.

LINCOLN

Portandomi dietro questo bagaglio di considerazioni capite voi stessi con quale interesse e aspettative io sia andato a vedere Lincoln di Spielberg. Il film racconta sostanzialmente gli eventi dell’inverno del 1865, periodo in cui Lincoln, durante il suo secondo mandato presidenziale e mentre il Paese era sconvolto dalla guerra civile, riuscì abilmente a far passare il celebre tredicesimo emendamento che aboliva la schiavitù e di fatto metteva fine alla guerra. Metto subito in chiaro che Lincoln è un film bello, importante, da vedere e che le mie aspettative sono state assolte, sebbene non in toto. E vado brevemente a spiegarmi.

Punto di forza è certamente il rigore storico, il lavoro sui documenti, il non cedere alla tentazione di spettacolarizzare lasciando invece che la narrazione sia dominata dalla parola: dai dialoghi, o meglio, dai monologhi di Abraham Lincoln, estratti e cesellati con un abile lavoro di taglia e cuci dai documenti originali.  Nella forma si tratta di un film rosselliniano se mai ce n’è stato uno e mi sembra evidente che Steven Spielberg conosca bene il cinema (e la televisione) di Roberto Rossellini e li abbia studiati a fondo durante la realizzazione del suo Lincoln. Il modo di raccontare gli eventi storici riesce ad essere insieme chiaro, convincente ed avvincente come forse solo Spielberg è oggi in grado di fare: la caccia ai voti democratici e repubblicani necessari per far passare l’emendamento, la bravura nel tenere le fila del proprio partito e prendere decisioni coraggiose e impopolari, l’interpretare i momenti storici e diventarne autore diventano i temi di un film hollywoodiano di largo consumo e questo, francamente, ha un che di prodigioso.

Lincoln2

Purtroppo però Spielberg non è stato altrettanto rosselliniano, altrettanto coraggioso, sul piano dei contenuti o sulla costruzione dei personaggi e alla fine il senso stesso dell’opera, inesorabilmente, tende a sfociare nell’insidiosa retorica. Il suo Abraham Lincoln è un personaggio da noi distante anni luce, sovrumano, soprattutto nella sua attività di leader politico: non lo vediamo mai commettere un errore, mai scosso da un dubbio, sempre serafico, impassibile e mai teso o intimorito dal corso dei drammatici eventi che sconvolgono il suo Paese. E valgono a poco poi i momenti di debolezza e umanità nell’ambiente familiare, con la moglie e i figli, che cozzano talmente con la figura pubblica da apparire posticci e superflui, ininfluenti. Un altro problema nella sostanza del film è che, nonostante si parli di una grande conquista civile di cui può gioire l’intera l’umanità, la storia non riesce ad universalizzarsi, a diventare patrimonio comune, e rimane fortemente e indissolubilmente legata agli Stati Uniti d’America e solo a loro. In definitiva Lincoln, a noi spettatori europei, non appare come un film sulla Storia dell’uomo (o dell’Occidente), la nostra Storia, ma sulla Storia Americana, distante da noi quasi come si trattasse di Aragorn che da Minas Tirith riporta pace e giustizia nella Terra di Mezzo.

Spielberg è andato vicino a girare un film di ricerca e analisi storica ma ha finito per deviare verso il sentiero della glorificazione e della retorica. O forse è stato costretto ad andare in quella direzione? Oppure è stato lui a volerlo? Non saprei dirlo, ma per quanto mi riguarda molta della sua forza e del suo significato il film lo ha perso quando ha intrapreso quel sentiero. Nondimeno rimane un bel film, importante, da vedere.

Lincoln-poster

PS: una postilla da fan di Rossellini: anche io sono convinto che Daniel Day Lewis sia un grande attore ma questa parte non dice nulle sue qualità; ruoli come questi sono facilissimi e l’interpetazione è insignificante, Rossellini li affidava letteralmente a gente presa in mezzo alla strada.

Donne spezzate nel paese del femminicidio

“Il furore mi possedeva. Tirai fuori il coltello. Avrei voluto che avesse paura e mi chiedesse grazia, ma quella donna era un demonio. ‘Per l’ultima volta’ gridai, vuoi restare con me?’, ‘No, no, no!’ disse pestando i piedi e si sfilò dal dito un anello che le avevo regalato e lo gettò tra i cespugli. La colpii due volte. Avevo preso il coltello del Guercio perché il mio si era rotto. Cadde al secondo colpo senza un grido”. Carmen è uccisa da don José nella novella omonima di Prosper Merimée (che ispirò l’opera musicata da George Bizet) perché l’uomo non accetta  d’esser lasciato. Quante tragiche Carmen ci raccontano le cronache ostinandosi ancora a usare l’espressione ‘delitto passionale’ o parlando di ‘raptus di gelosia’ come se le passioni (presunte) legittimassero gli omicidi. È una mattanza silenziosa quella provocata in Italia da uomini ‘di famiglia’, accettata altrettanto silenziosamente dalle istituzioni. Non appena si parla di femminicidio come è giusto, la mente collettiva si chiude: il femminicidio è questione che riguarda popoli di altre culture, arcaiche, primitive, brutali, afflitti da religioni dogmatiche, patriarcali e maschiliste. Invece la violenza sulle donne è proprio faccenda di casa nostra, un fenomeno in preoccupante aumento. I dati più recenti sono quelli della storica Associazione Telefono Rosa che a inizio luglio ha presentato il rapporto ‘Le voci segrete della violenza’. In nome dell’amore, amore malato e feroce che si tramuta in violenza assassina: solo nei primi 6 mesi del 2012 sono state uccise 71 donne. Si possono citare numeri a fiumi, una casistica inquietante, ( l’Istat ha rilevato che tra il 2005 e il 2010 sono state vittime di omicidio in Italia 650 donne) ma si ha sempre la stessa terribile conferma: padri, mariti e compagni si trasformano da care presenze in implacabili omicidi; la casa talvolta non è il nido sognato ma il luogo dove si consumano agguati mortali; la famiglia è un’aggregazione spesso insidiosa e perversa. Un libro certo non fa miracoli ma può aiutare a tirare le fila di una questione attuale, specie se chi lo scrive assiste e aiuta donne. Donne spezzate. La violenza tra le mura domestiche (Curcio editore, 2009,  € 12,90) è  un testo di agevole lettura scritto da Milena Milone, sessuologa, consulente di coppia e mediatore familiare, con l’intento di testimoniare la propria lunga esperienza: “nella mia pratica lavorativa – scrive l’autrice – mi è capitato di vedere decine di donne coperte di lividi e le storie che mi sono state raccontate sono tutte abbastanza simili”.

Il libro è dedicato alle donne ma è anche un severo monito: inquieta più di tutto per l’autrice la cortina di silenzio, l’adattamento alle violenze, psicologiche, morali, fisiche subìte, che ci rendono complici dei responsabili. A volte il femminicidio è l’ultimo atto di una lunga sequenza fatta di abusi e maltrattamenti mai denunciati. La violenza può essere declinata in tanti modi, tutti da non sottovalutare. È ‘metafisica’ quando è vessazione occulta che possono usare entrambi i partner, in forma di strategia del silenzio, di rifiuto sessuale, o facendo leva sulle debolezze dell’altro per incrinarne l’autostima. La violenza metafisica destabilizza la psiche della vittima pur non producendo un danno almeno apparente. La sopraffazione morale e psichica si manifesta attraverso un’ampia casistica del ricatto, dalla gestione dei soldi fino al caso in cui l’uomo non sopporta d’essere lasciato, che sia marito o fidanzato. Allora agisce come il don José della Carmen; purtroppo però le tragedie che si consumano sono reali. L’aggiornamento legislativo non è sinonimo di svolta culturale e di cambiamento di dinamiche mentali secolari. Ricorda infatti l’autrice che la prima riforma del diritto di famiglia risale al 1975; fino a quella data al ‘pater familias’ era consentito percuotere sia la moglie che i figli a fini ‘educativi’  e il cosiddetto ‘delitto d’onore’ commesso dall’uomo era punito con pene leggere; solo nel 1996 l’ordinamento giuridico italiano ha riconosciuto lo stupro come reato contro la persona e non contro la morale quale era; aggiungiamo che la legge sul divorzio è del 1970, che lo stalking in Italia è reato dal 2009. “Con il passaggio dal famigerato codice Rocco alla già citata legge 151 del 19 maggio 1975, il comportamento del maschio all’interno della famiglia sarebbe dovuto cambiare in modo netto e inequivocabile. Purtroppo le statistiche che fornisce l’Istat circa i gravi maltrattamenti che le donne subiscono, oggi forse addirittura più di ieri, dimostra invece che per ottenere cambiamenti nel comportamento dell’uomo bisogna che cambi la mentalità: la legge che pure è necessaria, non basta. Dirò anzi, sempre riferendomi al nuovo diritto di famiglia che l’aggressività che un tempo il maschio poteva manifestare pubblicamente nei confronti della propria moglie non è scomparsa ma si è trasferita, nascondendosi, più virulenta, all’interno della casa, dove cioè nessuno può vedere quello che succede, a meno che chi è aggredito non renda pubblica la vessazione che subisce”. Ma la violenza domestica non è denunciata.

La complicità femminile con una modalità deteriore d’essere del maschile comincia dall’educazione materna dei figli maschi fino al tacere sui delitti compiuti dai mariti contro i figli, maschi e femmine.  Secondo una nota criminologa americana Diana Russell, “la morte della donna rappresenta l’esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine”. Le donne sono uccise in quanto donne, perché colpevoli di aver esercitato l’autodeterminazione, aver trasgredito al cliché di femminilità che l’immaginario maschile ha introiettato e impone: la donna obbediente, brava madre e moglie, la Madonna di pazienza e sopportazione ma sessualmente disponibile, l’Eva  tentatrice a comando. Prendersi la libertà di decidere cosa fare delle proprie vite, sottrarsi  al potere e al controllo del proprio padre, partner, compagno, amante può essere pagato a caro prezzo. La violenza è universale e tutte le società patriarcali hanno usato, e continuano a usare, il femminicidio come forma di punizione e controllo sociale sulle donne. Milone ricorda l’inesistenza e invisibilità della donna per secoli e millenni, se non come corpo di procreazione, di piacere, consolazione, o su cui agire la violenza perché origine del peccato e di ogni male. Ricorda da che razza di storia ‘recente’ veniamo:dal XIV al XVII secolo imperversò in Europa la caccia alle streghe e attraverso il libro di due frati domenicani, Kramer e Sprenger, il Malleus Maleficarum (Il martello delle streghe), con l’appoggio incondizionato della chiesa si realizzò una persecuzione e carneficina di donne; pensatori e filosofi sono stati convinti per secoli che la donna non avesse l’anima; nel 1900 Paul Julius Mobius, medico neurologo scriveva un trattato ritenuto credibile su L’inferiorità mentale della donna, e ancora Sigmund Freud  era convinto che per le donne “l’anatomia è destino”.

Allora ci rendiamo conto che il processo di emancipazione è solo agli esordi e che il condizionamento culturale  basato sulla  dicotomia sessuale è tutt’oggi molto pressante, che il problema non è di quote o cromatismi. Le contromisure femminili alla violenza subita possono arrivare fino a esercitare il poter biologico, in senso tragico e deteriore: Medea uccide i figli. O adeguarsi alle modalità maschili: il caso della ‘Circe della Versilia’, Maria Luigia Redoli uccise il marito. Al tema del condizionamento l’autrice dedica un capitolo a parte. Con questi presupposti esplicativi, ci si sarebbe aspettati di trovare nel testo un riferimento preciso al quadro italiano di assuefazione a un maschilismo sempre più becero e brutale e alla rappresentazione delle donne come oggetto sessuale. Veniamo da anni di veline, escort (termine oggi di moda),donne esibite come corpi in tv, e corpo femminile come mezzo per accedere a tutto anche alla politica, e non ne siamo usciti. Questo ha prodotto solo un grave arretramento culturale che non può non incidere sulla mentalità maschile. L’attuale governo deve ancora firmare la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e il contrasto della violenza sulle donne e la violenza domestica. Il rapporto di Rashida Manjoo, relatrice speciale dell’Onu sulla violenza di genere, è stato molto chiaro nel ritratto impietoso ma reale del nostro paese:  in Italia “nel 54% dei casi di femminicidio, l’autore è stato un partner o ex partner e in solo il 4 % dei casi è un autore sconosciuto alla vittima. La maggior parte dei casi di violenza sono non denunciate nel contesto di una società patriarcale, dove la violenza domestica non viene sempre percepita come un crimine; dove le vittime sono in gran parte economicamente dipendenti dagli autori della violenza; e dove persiste la percezione che le risposte dello Stato non sono appropriate o sufficienti. La violenza domestica, che precede circa il 70% dei femmicidi in Italia e in Europa persiste e aumenta, e si fa sempre più pericolosa perché una donna può trovare la morte in casa con troppa frequenza”. Come sempre il problema è politico e istituzionale: restano inascoltate le raccomandazioni delle Nazioni Unite che hanno fatto più volte presente al governo italiano passato e presente, di non rispettare la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna  pur avendola ratificata.

Come pensare che ci siano cambiamenti se non è riconosciuta la gravità della violenza domestica, e se una donna che viene stuprata deve sottoporsi a esami invasivi per dimostrare che non era consenziente allo stupro subito, o se i centri antiviolenza non hanno risorse? Ammonisce l’esperta Onu sull’Italia: “il mio report sottolinea la questione della responsabilità dello Stato nella risposta data al contrasto della violenza, si analizza l’impunità e l’aspetto della violenza istituzionale in merito agli omicidi di donne (femicidio) causati da azioni o omissioni dello Stato. Femmicidio e femminicidio sono crimini di Stato tollerati dalle pubbliche istituzioni per incapacità di prevenire, proteggere e tutelare la vita delle donne, che vivono diverse forme di discriminazioni e di violenza durante la loro vita”. A quanto pare le sole sollecitazioni di organismi sovranazionali prese in considerazione dalle nostre istituzioni sono di tipo economico-finanziario. Sta a vedere che se c’è un femminicidio al giorno è anche colpa delle donne che si emancipano troppo.

Titolo: Donne spezzate. La violenza tra le mura domestiche
Autore: Milena Milone
Editore: Curcio (collana Rosso ciliegia)
Data di Pubblicazione: Aprile 2009, Pagine 191, Prezzo: 12,90 €

Mezzo intellettuale, mezzo di sinistra

La pancia di Ronaldo che danza sullo schermo, le lattine di birra mezzo vuote e le domeniche che scivolano via con un brivido di onnipotenza (che se uno così fa quei pallonetti lì allora anch’io, birre a parte, posso tutto davvero). I martelli pneumatici, i barboni e la demolizione di Perdizes (che è sempre meglio un grattacielo di venticinque piani con palestra, piscina e 1000 reais al mese di condominio anziché una vecchia casa di inizio novecento). I mondiali, le olimpiadi a Rio de Janeiro e chi continua a buttare divani e lavatrici in mezzo al mare (che tanto la Baia de Gaunabara, dicono, la devono bonificare). Ci sono tutte le speranze e le contraddizioni del Brasile di oggi in Meio intelectual Meio de esquerda (São Paulo, Editora 34, 2010), raccolta di ottanta cronache letterarie pubblicate tra il 2004 e il 2009 su importanti riviste e giornali brasiliani dal giovane scrittore di São Paulo Antonio Prata.

Trentaquattro anni, tre corsi di laurea (filosofia, cinema e scienze sociali) mai conclusi, Prata è uno che ama prendere e prendersi in giro (non a caso la sua promettente carriera è iniziata nella famosa rivista Capricho – l’equivalente brasiliano del Cioè – in cui teneva una rubrica sui più comuni psicodrammi e miti adolescenziali). Negli ultimi dieci anni ha scritto per l’Estado de São Paulo, Globo e HBO (come sceneggiatore). Attualmente scrive per la Folha de São Paulo. A chi capisse un po’ di portoghese suggerisco di dare un’occhiata qui e qui. Per tutti gli altri segue invece la traduzione di uno dei suoi testi più famosi – Bar ruim è lindo, bicho! – un’autocritica delle nuove leve di intellettuali di sinistra, che anche in Europa sembra avere una ragione più che precisa (seguita a sua volta da un breve glossario).

I bar brutti sono belli, ragazzi!
[di Antonio Prata]

Io sono mezzo intellettuale, mezzo di sinistra. Per questo frequento bar mezzo brutti. Non so se lo sai, ma noi, mezzo intellettuali, mezzo di sinistra, ci giudichiamo l’avanguardia del proletariato. Da più di centocinquanta anni (ci deve essere qualcosa di sbagliato con un’avanguardia di più di centocinquanta anni, ma fà niente).

Nel bar brutto che frequento attualmente il proletariato risponde al nome di Betão, il cameriere, che saluto con una pacchetta sulle spalle, credendo di risolvere così cinquecento anni di storia.

A noi, mezzo intellettuali, mezzo di sinistra, piace diventare amici del cameriere, con cui parliamo di calcio fin quando non arrivano i nostri amici per parlare di letteratura.

– O Betão, portacene un’altra – dico io, con i gomiti appoggiati al tavolino di latta sbilenco. E mi sento parte di questa cosa bella che è il Brasile.

Perché noi, mezzo intellettuali, mezzo di sinistra, adoriamo far parte di questa cosa bella che è il Brasile. Per questo andiamo nei bar brutti, che fanno molto più Brasile che i bar belli, dove si serve petit gateau e non c’è pollo à passarinho o carne-de-sol con macaxeira, che sono piatti tradizionali della nostra cucina. Benché noi, mezzo intellettuali, mezzo di sinistra, quando invitiamo una ragazza a uscire per la prima volta, ci andiamo più di petit gateau che di pollo à passarinho. Perché è vero che ci piace il Brasile, ma nell’ora del quagliare una europeata aiuta sempre.

A noi, mezzo intellettuali, mezzo di sinistra, piace il Brasile, ma molto ben diagrammato. Non è un Brasile qualunque che ci piace. Così come non ci piace un qualunque bar brutto. Deve essere un bar brutto autentico, una bettola, con tavolini di latta e bicchieri americani. E se per caso c’hanno pure una porzione di carne-de-sol, allora una lacrima spunta giù dai nostri occhi, lì nell’angolino, mezzo nascosta.

Quando uno di noi, mezzo intellettuali, mezzo di sinistra, scopre un nuovo bar brutto che nessun altro mezzo intellettuale, mezzo di sinistra, frequenta, noi non ci conteniamo più: chiamiamo tutta la cerchia di mezzo intellettuali, mezzo di sinistra e decretiamo che quello è il nostro nuovo bar brutto.

Il problema è che, poco a poco, il bar brutto diventa cult e inizia ad essere frequentato da vari mezzo intellettuali, mezzo di sinistra e universitarie più o meno fighe. Fin quando la Vejinha non lo recensisce come punto di ritrovo di artisti, cineasti e universitari e, un bel giorno, arrivando nel bar brutto, scopriamo che è pieno di gente che non è né mezzo intellettuale, né mezzo di sinistra, ed è andata lì solo per vedere se ci sono davvero artisti, cineasti, universitarie più o meno fighe. E allora noi diciamo: a me il bar piaceva prima, quando ci veniva soltanto il mio gruppo di mezzo intellettuali, mezzo di sinistra, le universitarie più o meno fighe e qualche vecchio ubriaco che giocava a domino. Perché noi, mezzo intellettuali, mezzo di sinistra, adoriamo dire che frequentavamo il bar brutto prima che diventasse famoso, andavamo in quella spiaggia prima che si riempisse di gente, ascoltavamo quel gruppo prima che suonasse su MTV.

A noi, per esempio, piacciano quei poveri che andavano in spiaggia prima, poveri che sanno arrampicarsi sui cocchi e usano sandali di cuoio. Questo sì che era bello. Detestiamo invece i poveri che sono venuti dopo, con le Chevette e le ciabatte Rider. Questi poveri no. A noi piace il povero autentico, del Brasile autentico. E ci fa ribrezzo la Vejinha, la aborriamo davvero, più di ogni altra cosa.

I proprietari dei bar brutti che frequentiamo si dividono in due tipologie: quelli che ci capiscono e quelli che non ci capiscono. Quelli che capiscono, capiscono davvero come siamo. Tengono il bar autenticamente brutto, chiamano un cugino del cognato per suonare un samba il venerdì, ci infilano la crocchetta di baccalà nel menù e aumentano tutto del 50% (capiscono che noi, mezzo intellettuali e mezzo di sinistra, stiamo abbastanza bene e siamo disposti a pagare caro roba che invece sembra economica). I proprietari che non ci capiscono, di fronte all’invasione, sostituiscono i tavolini di latta con tavoli di finto marmo, piastrellano le pareti e mettono uno stereo con musica reggae. E lì si fregano, perché a noi sta roba ci fa schifo. A noi, come ho già detto qualche volta, ci piacciano le cose autentiche, le cose così Brasile, le cose così roots.

Non ti credere che sia facile essere mezzo intellettuale e mezzo di sinistra in questo paese. Ogni giorno è sempre più difficile incontrare bar brutti, di quelli che piacciono a noi. I poveri hanno tutti ciabatte Rider e la Vejinha è sempre all’erta, pronta a riempire i nostri bar brutti di gente giovane e bella e a diffondere il petit gateau per i quattro angoli del mondo. Per la disperazione dei mezzo intellettuali e mezzo di sinistra come me che, per questioni ideologiche, preferiscono il pollo à passarinho e la carne de sol con la macaxeira (che è lo stesso della manioca, ma è come si dice là nel Nordest, e noi, mezzo intellettuali, mezzo di sinistra, pensiamo che il Nordest è molto più autentico del Sudest e preferiamo questo termine qua, macaxeira, che è molto più Camara Cascudo, capito?)

O Betão, portami una cachaça va! Di Salinas che c’hai?

Glossario mezzo auto-referenziale.

Pollo à passarinho: pollo fritto condito generalmente con aglio e prezzemolo.
Carne-de-sol: carne salata ed essiccata al sole.
Macaxeira: manioca.
Bicchiere Americano: in portoghese brasiliano, “copo americano”. È un antico, povero e tipico bicchiere da bettola. Si usa per bere di tutto: birra, cachaça, caffè, caffellatte e altro ancora. Nell’immaginario popolare brasiliano ha un po’ il valore del nostro bicchiere d’osteria. Per esempio, io l’ho sempre associato a questo qui.
Vejinha: Veja San Paolo, meglio nota come Vejinha, è il supplemento settimanale dell’edizione di San Paolo della rivista mezzo sensazionalistica, mezzo di destra Veja. Un inquietante incrocio tra Chi e Panorama.
Chinelo Rider: marca di ciabatte e infradito radical-cafonal.
Nordest: Il mezzogiorno, il Meridione, il profondo Sud del Brasile (dato che sotto l’equatore gira tutto al contrario anche la geografia della povertà si è dovuta adeguare). Comprende gli stati di Alagoas, Bahia, Ceará, Maranhão, Paraíba, Piauí, Pernambuco, Rio Grande do Norte e Sergipe.
Sudest: Il Nord produttivo del Brasile (capovolgiamoci di nuovo). Include gli stati di Espirito Santo, Minas Gerais, São Paulo e Rio de Janeiro.
Camara Cascudo: Antropologo, storico e studioso del folklore e delle tradizioni popolari brasiliane, in particolare di quelle del Nordest. Una specie di Ernesto de Martino brasiliano, se proprio vogliamo fare un paragone.
Cachaça: acquavite di canna da zucchero. Quella che si usa per la caipirinha, per intenderci. E visto che ci siamo sfatiamo un altro mito: la caipirinha non si fa affatto con lo zucchero di canna. Si fa con lo zucchero bianco raffinato, quello di tutti i giorni, che si scioglie bene, non ti resta tra i denti e non opprime i sapori. Ecco, l’ho detto.
Salinas: marca di cachaça che prende il nome dalla città (della perdizione) in cui ha sede la distilleria.

Da Cesare a Obama, passando per Clooney

Le Idi di MarzoCi sono film politici come Gomorra di Matteo Garrone, ci sono film sulla politica come Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula, e ci sono film come Le Idi di Marzo, di e con George Clooney, che guardano la politica dal buco della serratura. Che cosa appare dal buco della serratura? Una realtà deformata. Quale messaggio diffonde la politica? Una realtà deformata. Cosa serve per veicolare questo messaggio? I mezzi di comunicazione di massa.

Bene. A prima vista ne Le Idi di Marzo non manca nessun ingrediente. Ci troviamo in Ohio, terra del carbone e dell’acciaio, da sempre uno stato-chiave nella corsa alla Casa Bianca. In un futuro prossimo venturo è in corso la fase finale delle primarie, e trattandosi di un film di George Clooney (attore impegnato ma con charme), il focus è puntato sul Partito Democratico (non quello italiano, ed è per questo che si stanno facendo le primarie…). Per i primi venti minuti, piuttosto lenti, veniamo introdotti nel dietro le quinte della macchina elettorale: potrebbe quasi sembrare un documentario di Michael Moore, se non fosse che manca la sua “mole invadente” ad impallare la macchina da presa. Invece viene quasi sempre inquadrato Ryan Gosling (Drive, Blue Valentine), astro in ascesa di Hollywood, qui nelle vesti del trentenne Stephen Myers, «il miglior addetto stampa d’America», che si dichiara pronto a fare «qualsiasi cosa» pur di veder trionfare Mike Morris, governatore della Pennsylvania, interpretato appunto da George Clooney. Il nostro caro George compare relativamente in poche scene (nella pièce teatrale di Beau Willimon da cui il film è tratto non figurava neanche tra i personaggi), e tuttavia ricopre un ruolo centrale su due livelli: la comunicazione e il simbolo. Il candidato Morris è una presenza costante sui manifesti, sulle copertine, nelle interviste in TV dove si dichiara ateo, pacifista e tollerante  – vale a dire un concentrato di tutti i cliché del politically correct in salsa liberal; il candidato Morris, al di là dell’onestà dei valori professati, è soprattutto il simbolo della volontà di potenza che muove l’agire degli uomini, non solo ai vertici della piramide sociale (“chi diventerà presidente”), ma anche nella giungla della politica di partito (“trafugare segreti, screditare il rivale”).

Le Idi di Marzo

Non deve sorprendere il termine giungla: saranno soprattutto il caso e  la legge del più forte a muovere le pedine in gioco. Lo scontro si svolge tra le due fazioni del Partito democratico: da una parte Tom Duffy (Paul Giamatti), il responsabile della campagna del candidato più moderato, dall’altra il suo concorrente, Paul Zara (Philip Seymour Hoffman), responsabile della campagna di Morris. Tom Duffy vuole sabotare il lavoro di Myers, che a sua volta deve guardarsi dalle mosse di Paul Zara, suo diretto superiore, ben deciso a non farsi sopravanzare. Il tutto raccontato da Ida Horowicz (Marisa Tomei), giornalista del Times, dedita alla cronaca degli eroi di oggi che crolleranno domani, nell’eterno saliscendi del potere. In un rapido susseguirsi di colpi di scena, Myers sarà costretto a vedere il governatore Morris con occhi diversi. Come spesso capita nella fine di un amore o nell’abiura di una religione il suo atteggiamento diventerà diametralmente opposto. A ben guardare, non era mai stato un idealista, aveva trovato nel governatore Morris un profeta da idolatrare, nel suo discorso programmatico il Sacro Verbo. È emblematica a questo riguardo la tiepida scena di sesso tra Myers e la stagista Molly Stearns (Evan rachel Wood), figlia di un dirigente dei democratici, in una camera d’albergo: nel “pieno dell’azione” Myers cerca il telecomando per aumentare il volume mentre si gira verso la TV: non vuole rischiare di perdersi una dichiarazione di Morris. La breve relazione tra i due (entrambi pallidi e slavati, ma con Ryan Gosling pallido e slavato in modo ben più espressivo), innesta il secondo filone narrativo del film. Infatti la ragazza, non per niente democratica, aveva passato una notte anche col governatore Morris, e inoltre, come succederebbe in un film, era pure riuscita a rimanere incinta. Superfluo dire che gli sviluppi per Molly non saranno dei più rosei, perché se la politica è maschilista anche al cinema non si fanno sconti. C’è da notare che se il personaggio di Myers era sembrato troppo ingenuo all’inizio e troppo scaltro dopo, la figura di Molly è poco credibile nei comportamenti e nelle reazioni, tanto da rappresentare soprattutto un escamotage drammaturgico.

Le Idi di MarzoD’accordo, so cosa vi starete chiedendo adesso: dove abbiamo già sentito la storia del politico americano piacione con un debole per le stagiste? Ma oltre che a Clinton, per il naturale fascino e l’impatto sui media, il personaggio di Clooney non può non rimandare anche a Barack Obama, forse il più grande candidato presidente della storia degli Stati Uniti. Di solito sentiamo ripetere che il presidente degli USA è l’uomo più potente della terra, ma alla fine sarà davvero così? Se una campagna presidenziale supera in costi il miliardo di dollari, se le agenzie di rating private dettano le scadenze della vita pubblica, se il debito pubblico sfiora i quindicimila miliardi dei quali più di mille detenuti dalla Cina, se le corporation non operano entro i confini nazionali ma dovunque consenta il mercato globale, be’, forse, e ancora più di prima, non abbiamo bisogno di un altro eroe. Le Idi di Marzo, dentro stanze poco illuminate o sotto il cielo grigio dell’Ohio, ci racconta dei bassi traffici al mercato della politica, ed è superfluo ribadire quanto il messaggio giunga depotenziato allo spettatore italiano, reduce, tra l’altro, da vent’anni di berlusconismo.

Ci resta Clooney, accompagnato da un cast di attori impeccabili anche nei ruoli di contorno, ed un film dal retrogusto amaro che sa coinvolgere dopo un inizio stentato. Quando in un film americano la trama e gli interpreti prevalgono sulle marche autoriali, quando il regista si concentra più sul contenuto che non sul taglio delle inquadrature, non è insolito definire l’opera un Classico. Altre volte, semplicemente, si tratta di un film poco originale.

Le idi di marzo (poster)

Le Idi di Marzo – USA, 2011
di George Clooney
con George Clooney, Ryan Gosling, Philip Seymour Hoffman, Paul Giamatti
01 Distribution – 101 min.

Vi racconto una storia. La storia di Un fatto umano

Chi tra di noi, non riconosce nelle figure di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino due esempi di straordinaria virtù umana e professionale? Chi non riconosce il merito di questi uomini, giudici, eroi di aver scosso un Paese che iniziava esattamente nell’anno della loro morte ad assistere allo smantellamento di un sistema politico e istituzionale vecchio di quarant’anni?

Era la primavera e poi l’estate del 1992, alcuni di noi avranno un ricordo nitido di cosa successe, qualche immagine, episodi personali legati in questo come in altri eventi alla biografia di una nazione. Altri invece, magari sanno, ma poco ricordano.

Per gli uni e per gli altri, Einaudi propone Un fatto Umano di Manfredi Giffone, Fabrizio Longo, Alessandro Parodi (Stile Libero Extra 24,00 Euro). Quasi quattrocento tavole a fumetti che ripercorrono la storia del pool antimafia. E lo fanno ricostruendo dettagliatamente la Sicilia e l’Italia in quasi trent’anni di storia, chiamando in appello tutti tra uomini di mafia, commissari, giudici, politici, bancari, giornalisti, personaggi dello spettacolo e d’affari che entrarono in contatto diretto o indiretto con Cosa nostra. E a raccontare questa lunga storia, a tessere le fila di vicende complesse e apparentemente slegate tra loro, ecco che compare uno dei più classici artifici letterari: un cantore, Mimmo Cuticchio, che come nella realtà (è come tutti gli altri protagonisti di questa storia, un personaggio realmente esistente) inscena uno spettacolo inusuale nel teatro dell’Opera dei Pupi.

Il progetto che ci troviamo tra le mani, sfogliando Un fatto umano, è ambizioso, complesso, coraggioso. Intimorisce il lettore disinteressato, con le prime e dense tavole, avvince il lettore curioso in tutte quelle seguenti mescolando cronaca, storia e umanità. Un’umanità raccontata ed espressa dai volti di animali che ricalcano come maschere i lineamenti di tutti gli attori di questa tragica storia.

Sulla gestazione dell’opera abbiamo fatto qualche domanda allo sceneggiatore Manfredi Giffone, che ci ha raccontato di come è nata l’idea, di com’è raccontare di questi temi, e di com’è farlo scegliendo il linguaggio complesso del fumetto.


D: In una nota introduttiva spieghi chi è Mimmo Cuticchio, il narratore che hai scelto come cornice della storia che hai deciso di raccontare. Cosa ti ha spinto invece a parlare di fatti di mafia?
R: 
Quando ho iniziato a raccogliere materiale per questa storia, grosso modo sei anni fa, già da un paio di anni insieme ai disegnatori Fabrizio Longo e Alessandro Parodi cercavamo una storia. Volevamo raccontare una storia ambientata in Italia e che si distinguesse dai temi che venivano trattati fino a quel momento nei fumetti mainstream. Dopo aver scartato un’infinità di ipotesi, una sera, parlando con la mia compagna, lei da buona palermitana con nonchalance mi disse “ma perché non raccontate la storia di Falcone e Borsellino?”. E mi si è accesa la lampadina. In un istante ho come “visto” tutta la storia e istintivamente ho pensato che potesse funzionare.

D: Tu all’epoca dei fatti che racconti eri poco più che un bambino. Hai ricordi particolari di allora?
R:
 All’epoca delle stragi di Capaci e via D’Amelio avevo 14 anni. La cosa su cui ho riflettuto a lungo in questi anni in cui ho lavorato al libro, non sono stati i ricordi che io ho dell’epoca quanto l’esatto contrario. Il giorno della strage di Capaci io non ho assolutamente idea di dove fossi e cosa stessi facendo. Non riesco a ricordarlo. Tanto che mi è venuto persino il dubbio di non aver appreso affato la notizia.

D: Questo è curioso se messo a confronto con il lavoro che sembra esserci dietro alla costruzione di questo libro… Nella storia  ci sono connessioni puntuali, senza reticenza alcuna su luoghi, tempi e soprattutto nomi. Come hai tessuto la trama della storia?
R: Ho fatto un lungo lavoro preliminare di documentazione. Poi fin da subito, prima di mettermi sulla sceneggiatura vera e propria, ho iniziato a redigere una cronologia, un file dove mi sono andato appuntando tutte le date e relativi avvenimenti che ritenevo interessanti, in un periodo compreso fra il 1968 e il 1992. Da questo file che, arrivato alla 26esima versione, conta circa 400 pagine, ho poi distillato con un po’ di fatica una trama che fosse il più comprensibile e coerente possibile.

D: Ti sei mosso con uno scopo narrativo, di finzione o di denuncia? Da ciò che racconti sembra quasi che i due moventi si siano in un certo senso avvicendati…
R: L’intenzione iniziale era quella di raccontare al meglio la storia di Falcone e Borsellino e del pool antimafia. Poi mi sono reso conto che non si poteva raccontare l’antimafia senza spiegare cosa fosse stata la mafia degli anni ’80. Ma per farlo, a mia volta dovevo andare ancora a ritroso e partire dalla fine degli anni ’70. E a quel punto mi sono reso conto che la mole di informazioni che dovevo riportare mi stavano portando su una strada ben diversa dalla narrazione di fantasia.
Ho potuto inventare molto poco alla fine. Ma ho cercato per quanto mi è stato possibile di tenermi lontano anche dalle sirene della “denuncia” o della retorica antimafia. Ho cercato di avere uno sguardo direi quasi distaccato. Ogni elemento è stato valutato a lungo prima di essere inserito nella trama o scartato.

D: Questo è molto chiaro: sembra che ogni parola sia stata calibrata al millimetro in ogni dialogo. In generale le stragi di Capaci e via D’Amelio sono due episodi molto noti della storia recente. Ma tutto quello che si allarga intorno ai singoli eventi, e che tu descrivi, è meno conosciuto e spesso non correlato dall’opinione comune. Pensi di aver creato con le tue ricerche dei collegamenti mai paventati prima? Di aver detto qualcosa che un lettore non avrebbe fino ad ora potuto leggere altrove?
R: No, non penso. Al massimo penso di aver ribadito dei concetti che magari erano stati pian piano dimenticati nelle pieghe della cronaca, come un interessantissimo discorso di Rocco Chinnici a un convegno di magistrati del 1982, o aver messo in scena degli avvenimenti che hanno trovato un loro definitivo chiarimento solo in tempi recenti. Penso ad esempio alla morte di Sindona. Per anni si è rimasti incerti se propendere per la tesi dell’omicidio o del suicidio, mentre ormai è ragionevolmente accertato che si è trattata della seconda ipotesi: un suicidio con il cianuro che simulava un omicidio per avvelenamento. E ci sarebbero altri esempi del genere. Diciamo che mettendo insieme le tessere del puzzle la vicenda assume un contorno un poco più chiaro. Ma le tessere erano e sono a disposizione di tutti. Il disegno centrale alla fine è sempre quello ma potrebbero cambiare i contorni.

D: Mai, quindi, hai avuto paura mentre scrivevi o a lavoro finito, delle conseguenze che il tuo libro avrebbe potuto scatenare?
R: Ogni tanto il dubbio è affiorato, ma devo dire che al di là delle suggestioni da cui possiamo essere stati influenzati ogni tanto noi tre autori, ragionando ogni volta a mente fredda siamo arrivati alla ragionevole conclusione che non è che stessimo correndo chissà quale rischio. Certo, dal punto di vista legale ci siamo tutelati il più possibile: ogni scena che abbiamo raccontato è riconducibile a una fonte, citata nell’apposita bibliografia.

D: Tre autori, infatti. Come hai lavorato con gli illustratori? Hai influenzato alcune scelte grafiche, o a tua volta sei stato influenzato dalle tavole che ti proponevano?
R: Abbiamo lavorato in un modo leggermente inusuale per un fumetto e forse in special modo per un fumetto italiano. Anche se i compiti hanno seguito la classica divisione sceneggiatore-disegnatori, abbiamo portato avanti il lavoro insieme. Partendo dalla sceneggiatura per ogni tavola Alessandro e Fabrizio hanno prima realizzato un layout che correggevo dove c’era bisogno. Poi dal layout si passava alle matite e alle ultime modifiche e solo a quel punto passavano alla fase finale dell’acquerello e delle rifiniture. La ricerca del materiale iconografico a partire dalle mie informazioni l’abbiamo fatta insieme, avvalendoci di ogni fonte possibile, film, documentari, foto d’epoca e anche foto realizzate ad hoc da me in vari sopralluoghi in Sicilia. Quindi direi che ci siamo influenzati reciprocamente per tutto l’arco della lavorazione.

D: I personaggi che rappresentate sono animali antropomorfi, alcuni molto riconoscibili (Falcone un gatto, Borsellino un cane) altri, almeno per una lettrice poco attenta alla zoologia, molto meno. Se un rapporto di filiazione con Spiegelman è banale, c’è da dire che la vostra declinazione dell’idea è totalmente diversa. Avete lavorato cercando delle somiglianze? O c’è un richiamo simbolico nella scelta degli animali?
R: L’idea di usare gli animali mi è venuta dopo aver letto Blacksad di Canales e Guarnido e quando l’ho proposta a Fabrizio e Alessandro l’hanno ritenuta convincente. Hanno preparato dei bozzetti preliminari di alcuni personaggi principali e ci sembrava che la cosa funzionasse. Poi da quando ci siamo messi al lavoro in maniera seria, ognuno dei circa 200 personaggi è stato reso a seconda della somiglianza, specie se si trattava di un personaggio importante come Falcone o Borsellino, e che dunque dovesse essere estremamente riconoscibile. Oppure abbiamo pensato a degli abbinamenti con un animale che suggerisse l’idea del carattere del personaggio. In un certo numero di casi siamo riusciti a unire le due cose, in altri, ma in numero tutto sommato minore credo, ci siamo lasciati andare alla metafora animale per indicare la funzione del personaggio: i segugi sono in generale giudici istruttori o investigatori e così via.

D: Il libro è uscito circa da tre settimane. Cosa ti aspetti? Come si vive il periodo dopo un lavoro così grande, così lungo? Hai già in mente nuovi progetti?
R: Non ho sinceramente idea di cosa stia succedendo davvero, se il libro stia andando bene o meno. Vedo che stanno uscendo diverse recensioni e che sono positive e questo fa di certo un grande piacere. Ma non c’è molto tempo per fermarsi a rallegrarsene perché al momento siamo impegnati in modo piuttosto intenso nel cercare di promuovere quanto più possibile il nostro lavoro. Quindi direi che dopo un lavoro così lungo c’è ancora tanto da fare, anche se sicuramente cercare di raccogliere i frutti di una lunga gestazione è un’occupazione di gran lunga più piacevole che stare seduti per ore davanti al computer o chini sul tavolo da disegno. Insomma stiamo ancora lavorando a Un fatto umano e per il momento quindi non ho in mente altri progetti.

Titolo: Un fatto umano. Storia del pool antimafia
Autore: Manfredi Giffone, Fabrizio Longo, Alessandro Parodi
Editore: Einuaudi (Stile Libero Extra)
Dati: 2011, 24,00 €, 375 pp.

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Tutta colpa dello spread! Che fine hanno fatto i peccati?

L’ultimo sul banco degli imputati perché colpevole di tutti i nostri mali, il più amato perché il più funzionale alle epocali logiche deresponsabilizzanti, è lo spread. Che non è il bread e neanche il bed. Spread, proposta in antitesi allo spritz, è parola che non conoscevamo e di cui stiamo facendo scorpacciate obbligatorie, senza peraltro arrivare a una qualche bolla di senso. Chi non naviga nella finanza ma al limite nelle acque della precarietà o nelle strade d’Italia allagate alla prima intemperie con conseguenze anche tragiche, chi a una banca non osa chiedere neanche il proprio estratto conto per non gareggiare in rossore, difficilmente aggiungerà d’ora in poi il signor spread tra i propri contatti facebook. Siamo giunti al massimo grado di annebbiamento psichico collettivo mentre come non mai nella storia umana disponiamo di una possibilità di accesso trasversale e capillare a ogni genere d’informazione; siamo al naufragar antropologico mentre è anche massimo il grado di impersonalità dei fatti. Se niente va, non è quasi neanche più colpa di un governo ladro come da adagio d’altri tempi: sono certi tassi mercuriali che si impennano, sono le banche, i mercati. Questioni impersonali, eventi remoti, subìti come invasioni di alieni ad altre alture. Entità impersonali, quasi metafisiche capaci di disarcionare persino un premier che niente e nessuno era mai riuscito a fermare per anni, e a sostituirlo all’improvviso con un manipolo di savi, savi perché tecnici col valore aggiunto d’essere cattolici. Bruscamente siamo passati dal Carnevale di mascherate, spogliarelli e risate grasse, alla Quaresima d’espiazione cattolica da Controriforma.

Viene da sé interrogarsi su cosa sia peccato in questa psicolabile società. Non c’è che la letteratura a cui chiedere lumi. O la psicoanalisi: quella che spinge lo sguardo oltre lo spazio del setting, dialoga con sociologia, antropologia, filosofia e nei sintomi dei pazienti rintraccia epocali cesure, smottamenti in superficie e fratture di faglie in profondità. Il bastone letterario cui appoggiarsi è Franz Kafka, lo scarafaggio di famiglia che ha troppo sentire e vede oltre il visibile. Per la sua sensibilità il peccato è qualcosa che riguarda la caduta nell’incoscienza, la perdita di unione dell’individuo con se stesso, con il grande albero della vita, l’essere incatenati per seduzione passiva a catene conformi. “Egli è un cittadino libero e sicuro della terra, poiché è legato a una catena che è lunga quanto basta per dargli libero accesso a tutti gli spazi della terra, però è di una lunghezza tale per cui nulla può trascinarlo oltre i confini della terra. Ma al tempo stesso egli è anche un cittadino libero e sicuro del cielo, poiché è legato anche a una catena celeste, regolata in modo simile. Così, se vuole scendere sulla terra lo strozza il collare del cielo, se vuole salire in cielo quello della terra. E ciò nonostante egli ha tutte le possibilità e lo sente, anzi si rifiuta di ricondurre il tutto a un errore commesso all’inizio nell’incatenarlo”. Negli Aforismi di Zurau, pubblicati per la prima volta nel 1953 dall’amico Max Brod con il titolo di “Considerazioni sul peccato il dolore, la vera via”, Franz Kafka delinea tra il 1917 e il 1918 un discorso su una umanità prigioniera tra terra e cielo che dimentica la linfa vitale in sé e pecca dandosi la morte a ogni istante. Nel “Libro rosso” Jung scrive qualcosa di simile: “Se poniamo un Dio fuori di noi, ci strapperà al nostro Sé, perché il Dio è più forte di noi. Allora il nostro Sé si troverà in grave difficoltà. Se invece il Dio si insedia nel Sé, ci sottrarrà alla sfera di ciò che è fuori di noi […]. Nessuno ha il mio Dio, ma il mio Dio ha tutti quanti, me compreso”. E oggi tra una dose fast di junk food e lo spread cosa ne è del peccato?

Accorre in nostro aiuto un altro bastone: il “Giornale storico” del Centro studi di Psicologia e Letteratura (fondato dallo psicoanalista junghiano Aldo Carotenuto), rivista in forma di libro che si pubblica due volte l’anno con numeri monotematici (Fioriti editore, Roma, www.fioriti.it. Si può anche consultare il sito www.centrostudipsicologiaeletteratura.org). Il volume 11 (ottobre 2010) è dedicato ai peccati. Contiene un articolo ad alta densità concettuale scritto dall’analista Simonetta Putti con Roberto Cantatrione che suggeriamo di leggere in questi giorni di impropria “liberazione”. Il titolo è: ‘Quale attualità per il peccato’?  Ricorda Simonetta Putti che agli inizi degli anni ’90 il filosofo francese André Glucksmann invocava un Undicesimo Comandamento:  “che nulla di ciò che è inumano ti sia estraneo; ovvero il richiamo alla ineludibile necessità di guardare in faccia il male e divenirne consapevoli”. Da allora i peccati “tradizionali” (gola, lussuria, superbia, accidia, avarizia, invidia, ira) e i nuovi (evasione fiscale, uso pubblico delle istituzioni per fini privati, arricchimento a spese degli altri ecc.) paradossalmente godono, annota l’analista, di “una sorta di derubricazione della gravità”. L’Italia primeggia in questa tendenza ‘grazie’ anche alla sua storia pesantemente intrecciata con quella della Chiesa per cui la sfera del peccato (che attiene la morale) e quella del reato (che attiene l’ambito delle regole e della legalità) sono spesso coincise e ancora coincidono nell’accezione comune. Con la conseguenza ancor più paradossale che, per una distorta interpretazione della religione, basta un accenno di pentimento (anche non sincero) per far scattare il perdono e quindi l’azzeramento delle responsabilità. L’autrice vede nel ‘perdonismo’ alternato, sovrapposto e miscelato all’indifferenza e all’accidia, il peccato endemico del nostro tempo. Nell’accelerazione imposta dalla globalizzazione, tutto è travolto e stravolto: pensiero forte, tradizionale idea di famiglia, società, senso delle regole, identità. “L’Io è andato man mano mostrandosi come un’istanza sempre meno unitaria,   mentre il Super Io è parso talvolta eclissarsi, come ha evidenziato il progressivo aumento delle patologie border line”. Se la liquidità d’accezione baumaniana è nota ricorrente delle attuali società, la nostra, sottoposta dagli anni ’80 al “trattamento” televisivo e al verbo dell’apparire, ha risposto sviluppando “una indifferenza morale e una superficialità percettiva”. Nel passaggio dalla società di Edipo a quella di Narciso, nell’accentuazione dell’elemento visivo e superficiale, si determina “un conformismo che di fatto comporta la rinuncia alla ricerca di una coscienza individuale. Così, taluni peccati e taluni reati vengono considerati ormai solo trasgressioni veniali, a causa di una assuefazione, non di rado sconfinante con la rassegnazione, che ha fatto perdere la capacità di indignarsi”.

La nostra  recente parabola politica fino agli ultimi esiti  sta a segnalare questo iter. Il risultato è l’opacità dell’individuo nella relazione con se stesso, con l’altro uomo, con il grande Altro in senso lacaniano “inteso come regola non scritta che governa la società”. L’indifferenza nei confronti della norma molto accentuata nel nostro paese “tende a depotenziare la gravità della trasgressione ed è concausa del menzionato perdonismo”. Che colpa ne ha l’individuo se lo spread si impenna, la Bce ci punisce e il capitale finanziario specula ai danni del bel paese? Forse nessuna. Ma ha di sicuro la responsabilità di perdersi nella propria opacità indifferente per amore di conformismo. Se ognuno si sforzasse di fare un po’ d’ordine in casa propria ricomponendo le fratture scisse, ora che il vero “perturbante” per dirla con Freud non è l’inconscio ma “la società edonista e sregolata” (parola del filosofo e psicoanalista sloveno Slavoj Zizek), potrebbe frequentare il dio interiore invocato da Jung, riscoprendo “quei valori che paiono diventati desueti come il pudore e la vergogna”. Ritroverebbe un salutare senso del limite e il vigore che dà sentirsi responsabili  della propria vita quale opera in fieri originale. Certo occorre un continuo esercizio di distanza  dall’apparenza mediatica, dagli altri, persino dall’inganno di noi stessi. Così da allargare la percezione “fino a poter scorgere – oltre la scena in cui si svolge la recita quotidiana –  anche il retroscena, i magazzini e gli oggetti di scena. Con lo sguardo e la percezione allargata, ricostruire le trame, soffermarsi sul senso del copione e riscriverlo,  quando occorre e quando è nelle nostre possibilità”, sostiene Putti. Allora, nell’orrore anche lessicale di un mondo estraneo e straniante si apre uno spiraglio di luce. Scriveva Jung nel saggio ‘La struttura dell’inconscio’: “Chiunque si identifichi con la psiche collettiva o, in termini mitologici, si lasci divorare dal mostro e si annichilisca in esso, arriva al tesoro vigilato dal drago, ma vi arriva contro la sua volontà e con tutto danno per se stesso”. Infine nel saggio ‘L’inconscio’: “Il nostro atteggiamento razionalistico ci porta a credere di poter operare meraviglie con organizzazioni internazionali, legislazioni e altri sistemi ben congegnati. Ma in realtà solo un cambiamento dell’atteggiamento individuale potrà portare con sé un rinnovamento dello spirito delle nazioni. Tutto comincia con l’individuo”.

N° 11 – Ottobre – 2010
Argomento: Dalla maieutica al transfert. Psicoterapia e consulenza filosofica a confronto
Articolo
Quale attualità per il peccato?
Simonetta Putti – Roberto Cantatrione

http://www.fioriti.it/

Il difficile mestiere dell’umanità tecno liquida

“La timidezza, fonte inesauribile di disgrazie nella vita pratica, è la causa diretta, anzi unica, di ogni ricchezza interiore”, pensava e andò scrivendo il filosofo Emil Cioran. C’è ancora possibilità di esistere  nutrendo tale ricchezza interiore? C’è spazio per timidi e riflessivi?  E il pudore che fine fa oggi: chi si vergogna, dovrà vergognarsi del proprio sentimento ‘inopportuno’? Sembra che nel mondo tecno-liquido  questa gamma di potenzialità umane sia bandita. O sia lasciata ai vinti, agli emarginati. Gli animi meno esuberanti o impositivi saranno costretti a nascondersi dietro un avatar e a fare di un mouse l’estensione della propria personalità, per non  scomparire del tutto socialmente? La società tecno-liquida, nata dal connubio tra la tecnologia e il divenire convulso, peculiare della post-modernità che fa terra bruciata di tutto (liquidità teorizzata dal sociologo Zygmunt Bauman), ha altri imperativi. Li ha esposti lo psichiatra Tonino Cantelmi nel corso del convegno ‘La psicologia e le sfide della modernità’ che si è  svolto all’Ateneo pontificio Regina Apostolorum di Roma dove il medico ha la cattedra di Psicopatologia. Cantelmi, presidente dell’associazione psichiatri cattolici, è un esperto in materia poiché, dal 1999, è stato il primo in Italia a occuparsi dell’impatto della tecnologia digitale sulla mente umana. Le tecnologie ‘calde’ sono la caverna postmoderna degli istinti; antro delle meraviglie e del consumo rapido di bisogni e desideri che non ha eguali né precedenti comparabili. Il luogo dove raggiungere picchi emotivi alla svelta e altrettanto alla svelta sgattaiolare fuori per dare avvio a una nuova caccia emozionale, senza mai lasciarsi coinvolgere intimamente. Ricerca delle emozioni secondo una modalità compulsiva ed esterna a sé, velocità, accelerazione, sono caratteristiche di questa specie umana, ha sottolineato Cantelmi che non a caso ha scelto di mostrare tra i contributi presentati, un brano del film ‘Il discorso del re’ in cui  si racconta la timidezza di un potente, tanto invisa a questa società. “La tecnologia consente di cercare emozioni senza fine e si salda alla velocità che non è più un lusso ma una modalità d’essere, altra categoria antropologica fondamentale per l’uomo tecno liquido. E la velocità trasforma tutto in consumo. Nessuno rinuncia alla velocità, tutto è veloce: la vita, l’amore, le amicizie”. Prerogativa dell’uomo tecno liquido è anche il narcisismo esaltato dalle tecnologie che catapultano l’individuo in una dimensione promozionale perenne. “Il narcisismo del terzo millennio- ha spiegato Cantelmi – si declina in un modo un po’ diverso da quello descritto dai libri. Facebook è la tua vetrina, hai la tua ‘fotina’, il tuo cartellone, lontano da ciò che sei tu. Rappresenta noi stessi in modo diverso da ciò che siamo”. Non è un caso che gli psichiatri americani in fase di elaborazione del DSM 5, (il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, la ‘Bibbia’ della salute mentale), stiano pensando di derubricare il narcisismo: “non è forse la migliore forma di adattamento alla società tecno liquida?”, ha commentato ironicamente Cantelmi.

Alla ricerca delle emozioni, alla velocità e al narcisismo l’uomo digitale aggiunge come ultimo requisito l’ambiguità. Anche questa può essere intesa una forma di adattamento ‘evolutivo’: l’avatar può essere molto diverso da ciò che si è, ma è il modo di rappresentarsi in un mondo dove nulla è stabile, nulla è definitivo, tutto può assumere le forme che di volta in volta si declinano. Un po’ come nella pubblicità di un bitter, mostrata al convegno, dove lei si scopre essere un lui e lui una lei. Lungi dal rinunciare alla bellezza della tecnologia, lo psichiatria ha puntato l’attenzione su indizi precisi che inchiodano a una riflessione globale: ci stiamo giocando la relazione interpersonale. Tocca a noi scegliere. “Che relazione avremo mai? Ci parleremo attraverso le bacheche o riusciremo a salvare il grande tema dell’empatia?”, è la domanda delle domande posta. Se non c’è l’essere, se non c’è un esserci, non può esserci un essere con, proprio della relazione, né un essere per, non solo delle professioni di aiuto ma dell’assistenza e della donazione di sé.

I mezzi di comunicazione e tecnologici condizionano pesantemente la vita affettiva di ciascuno, ma più vulnerabili di tutti sono bambini e adolescenti. La psicologa e psicoterapeuta Maria Beatrice Toro, ha posto l’attenzione su ‘l’insostenibile peso del corpo: l’anoressia al tempo di Internet”. Un’altra delle nefaste equazioni della tecno liquidità, infatti, è che magrezza equivalga a potere, successo. Magari anche l’anoressia a breve sarà depennata dalle patologie visto e considerato che sempre più ragazze la promuovono come stile di vita; e quale migliore vetrina per farlo se non Internet? Il fenomeno, avverte la psicoterapeuta, è ‘vecchio’, conosciuto da almeno di 15 anni, da noi un po’ meno: proliferano siti e blog dove “si sponsorizza l’anoressia come uno stile di vita o come una religione con una sua divinità e un suo credo”. La divinità è la dea Ana che richiede una serie di rituali in nome di rivelazioni che fa alle adepte, nonché comandamenti da seguire: essere magri è più importante che essere sani, se non sei magra non sei attraente, se mangi ti devi punire, non mangiare è simbolo di autocontrollo. “Fino ad arrivare a dove? Quando ti puoi fermare? Alla morte. Il nichilismo è un’altra caratteristica della tecno liquidità”. I siti che inneggiano all’anoressia, a riprova di come web, psicologia e psicopatologie siano correlati, non fanno che “peggiorare i sintomi delle ragazze anoressiche e bulimiche che iniziano a navigare” perché esasperano il confronto incessante, la competizione e la ricerca della perfezione che le conduce all’autodistruzione. La psicoterapeuta ha citato l’esempio della Francia dove siti del genere sono stati chiusi. Ma questo richiederebbe di poter trasformare in legge una proposta legislativa del 2009 che non ha avuto seguito da noi. Al momento tramite polizia postale in Italia si possono chiudere i siti pedopornografici (la pedofilia è un reato), ma non quelli inneggianti all’anoressia (è una malattia, non un reato). Ricerche scientifiche hanno dimostrato che il solo fatto di navigare in rete o utilizzare i social network può comportare un maggior rischio di sviluppare disturbi alimentari. La buona notizia è però che fioriscono altrettanti siti  pro vita o pro recovery: luoghi virtuali in cui le ragazze che si stanno curando dall’anoressia invitano le altre a farlo. Il corpo ingombrante dell’obesità rivela un disturbo di base analogo: “nessuna cura è adeguata – ha dichiarato lo psichiatra Antonio Sarnicola – se non cambia alla radice la modalità affettiva di chi ha questa patologia”.

Nell’era digitale, le dipendenze assumono i modi e le forme più vari. La dipendenza affettiva femminile si tramuta in ‘ipersessualizzazione’, avallata da una comunicazione pubblicitaria che riduce la donna a corpo, il corpo a oggetto che esiste per appagare i desideri maschili, rinunciando a sé. In questa logica perversa, il corpo diventa “un grande biglietto da visita – ha spiegato la psicoterapeuta Michela Pensavalli – che deve essere sempre curato, sempre apposto, come l’altro vuole. C’è una dissociazione tra la coscienza e il corpo”. Il messaggio che è trasmesso dall’uso continuo del corpo è che non si è donna se non si è seducenti e seduttive. “Le ragazze strumentalizzano se stesse, il corpo, la sessualità” per corrispondere a questo imperativo, si disconnettono dai loro bisogni profondi per essere all’altezza di un compito che le fa subalterne. L’ipersessualizzaione dei media è fenomeno noto agli esperti, analizzato con ampio supporto di dati dallo psicologo dello sviluppo Daniele Mugnaini. Mtv, musica, riviste di ogni genere, Mp3, videogames e giochi elettronici, telefonini, tv, Internet, pubblicità: quantità dei mezzi a disposizione, iperaccessibilità a ognuno, sono le caratteristiche che distinguono i ‘nativi digitali’, bambini e adolescenti nati e cresciuti in questo mondo tecnologico, rispetto alle generazioni che li hanno preceduti. Se i dati americani fanno spavento perché raccontano di esseri umani in crescita sottoposti a un bombardamento mediatico senza filtri (complici o indifferenti gli adulti),  quelli di casa nostra non sono da meno: “i bambini italiani stanno quasi due ore al giorno davanti alla TV. Quasi la metà ha il televisore in camera da letto, dice di non poterci rinunciare e vede tranquillamente film col bollino rosso; la maggioranza gioca ai giochi elettronici e ha Internet in casa. Il 60% di questi ha Internet in camera da letto, lo usa quasi tutti i giorni e ha un profilo sul socialnetwork”.

Se la globalizzazione sta per americanizzazione dello stile di vita, la meta è raggiunta. Già dal 2007, l’associazione psicologica americana ha lanciato l’allarme sulla ipersessualizzazione dei bambini provocata dai media. Il messaggio dei media è che “la qualità della persona sta nell’essere oggetto sessuale, della donna nel dare piacere all’uomo, i bambini sono da trattare come maturi sessualmente e sono perciò bombardati da inviti sessuali che favoriscono un’idea di sessualità ricreativa e irresponsabile, c’è una sessualità spettacolare anche nelle pubblicità e nei video musicali, sempre più connotata da violenza e istintualità, sganciata dalla relazione affettiva”. Contenuti pericolosi sono facilmente accessibili ai minori che non hanno strumenti per distinguere tra fantasia e realtà. In questo quadro drammatico si inserisce l’iperfocalizzazione sul corpo della bambina perché la bambina è considerata uguale alla donna,  e la sua oggettificazione: bambole esplicitamente allusive, come l’abbigliamento, giochi elettronici in cui sono esaltati violenza e sessualità, rimandi al sesso fino a contenuti sessuali espliciti e alla pornografia. Questo bombardamento mediatico destoricizza gli individui, strappandoli alla vita e trasportandoli in una dimensione irreale, immette in una sensazionalità incessante “che annulla la fatica, il dolore dell’attesa e della nostalgia, plasma una spontaneità falsata che leva interesse per la vita interiore propria o altrui, per qualsiasi richiamo della coscienza, per l’empatia. Se si insinua il tarlo che l’esperienza fondante è la sessualità così intesa, se i bambini sono precocemente introdotti in questi linguaggi sessuali, non c’è da meravigliarsi che lo sviluppo psicosessuale del bambino possa essere compromesso.

Non è che accesso ai media significhi in automatico psicopatologia – chiarisce Mugnaini – ma compaiono effetti psicopatologici nella sintomatologia”. Quali? Esperienze dissociative, de realizzazione, dipendenze, ansia, antisocialità, disturbi alimentari e della sfera sessuale. Infine, German Sanchez, direttore operativo dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, ha ricordato che se vengono meno i requisiti di una società solida, il tempo per realizzare e lo spazio come palcoscenico della vita in cui si concretizzano i progetti, l’uomo vive in una dimensione virtuale, in uno spazio-tempo tecno-mediatico dove imperversa la fantasia, ma una fantasia sterile di un’umanità manipolatoria che è manipolata dal suo agire. Un Prometeo incatenato dal suo stesso agire.  Viene in mente lo scrittore Ennio Flaiano: “la stupidità ha fatto progressi enormi. È un sole che non si può più guardare fissamente. Grazie ai mezzi di comunicazione, non è più nemmeno la stessa, si nutre di altri miti, si vende moltissimo, ha ridicolizzato il buon senso, spande il terrore intorno a sé”.

Il crocifisso di Stato: una storia da raddrizzare

Il 18 marzo 2011 la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo – organo del Consiglio d’Europa e non dell’Unione Europea come spesso erroneamente si sostiene – si è pronunciata contro la signora Soile Lautsi, cittadina italo-finlandese di Abano Terme, in provincia di Padova. Nel procedimento Lautsi vs. Italy, la nostra concittadina aveva sostenuto che la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche costituiva una violazione della Costituzione italiana, che dal 1984 non riconosce più la religione cristiana, cattolica e romana come unica religione di Stato. Dopo un primo pronunciamento a lei favorevole nel 2009 e dopo il ricorso da parte dello Stato italiano, è arrivata la sconfitta, salutata in coro dalla nostra classe politica, che quando si parla del simbolo religioso si raccoglie in una prodigiosa union sacrée. Di sconfitta si tratta, non bisogna girarci attorno. Ma di che tipo di sconfitta stiamo parlando: soltanto giuridica o ben più ampia, culturale, politica, storica?

Il crocifisso di Stato, «libretto polemico» (così lo definisce l’autore stesso) di Sergio Luzzatto, brillante storico della Rivoluzione francese e dell’Italia del Novecento, è uscito poco prima della sentenza in questione. Ma questo poco importa al lettore, dato che il testo si occupa, più che di questioni giuridiche, della dimensione profonda, storica del problema della presenza pubblica del simbolo religioso, del rapporto tragico e profondo tra le nostre esistenze quotidiane, le nostre istituzioni e la Chiesa cattolica. Con le sue parole: «Il crocifisso sul muro non è soltanto una questione di diritto, una questione di codici o di codicilli. Il crocifisso sul muro è soprattutto un problema di storia. Una storia lontana o anche lontanissima, risalente fino al Medioevo, e una storia vicina o anche vicinissima, dal primo Novecento a oggi. In Italia il crocifisso è là, davanti ai banchi dei bambini nelle scuole elementari, sopra il letto dei pazienti nelle stanze d’ospedale, dietro le sedie dei giudici nelle aule dei tribunali, perché là lo ha preparato a giungere un passato remoto, perché là lo ha imposto un passato prossimo, perché là lo mantiene una specie di presente storico».

La storia del crocifisso di Stato è la nostra storia peggiore, la «storia da rifiutare», conclude Luzzatto. Possiamo ben vedere che lo storico assume fin dalle prime pagine un atteggiamento trasparente: quello che avete tra le mani non è un libro di distaccata analisi storica, ma un libro che unisce il tono polemico del pamphlet al rigore della ricostruzione storica; mantiene però sempre dritta la direzione: il crocifisso sui nostri muri pubblici non è un simbolo universale, non esprime l’essenza profonda della nostra identità nazionale e non è affatto innocuo. Luzzatto ci mostra, in poche pagine che tengono assieme con sorprendente leggerezza e sapienza narrativa una matassa complessa di trame macro e microstoriche, perché è importante fare la storia di un problema presente: solo in questo modo possiamo accorgerci che il nostro presente non è condannato all’immutabilità, ma è talmente fragile da poter essere rivoltato.

Come dicevamo, le tesi di Luzzatto sono essenzialmente tre, e contrastano punto per punto la vulgata bipartisan pro-crocifisso. In primo luogo, il crocifisso non è un simbolo che unisce ma un simbolo che divide, come mostrano le sue origini risalenti ai secoli XII e XIV dell’Occidente cristiano, lo stesso periodo che vede le prime violente persecuzioni antiebraiche, da cui nascono le conseguenti attività vandaliche contro il simbolo da parte ebraica. In secondo luogo, il crocifisso non è un simbolo universale, non esprime un messaggio di pace che viene rivolto a tutti, ma parla a una parte precisa di fedeli e urla la sofferenza del Cristo, al punto che seguire il ragionamento degli «atei devoti» nostrani significherebbe insultare la sua potenza stessa e farne implicitamente un simbolo muto, quasi impotente. Infine, se è una verità banalissima che la nostra identità nazionale ha delle “radici cristiane”, è anche vero che l’identità di un paese, così come i simboli attraverso cui si esprime, è qualcosa che evolve, muta, si trasforma radicalmente con il tempo: l’identità di un paese non è un’essenza immutabile ma una trama di eventi storici in perenne mutamento. Perché infatti, domanda provocatoriamente Luzzatto, non si parla mai della presenza o dell’assenza del crocifisso dalle case degli italiani, e soltanto della sua presenza pubblica? Non sarà forse che l’enfasi sulla sua pubblicità serva a oscurare il fatto che si tratta di un simbolo sempre meno presente nelle vite reali e negli spazi che concretamente abitano gli italiani?

Tutto questo è argomentato tramite il ricorso a una cronologia e a una geografia estremamente variegate: dalla Cuneo degli anni Ottanta al Medioevo di Francesco d’Assisi, dal Gargano di Padre Pio all’esposizione della Sindone l’anno scorso a Torino, dal Cristo parlante e amichevole di Guareschi alla marcia su Roma descritta da Curzio Malaparte. La difesa del crocifisso delinea inoltre inedite e bizzarre convergenze, scenari surreali in cui il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la grande scrittrice Natalia Ginzburg, Marco Travaglio, Mariastella Gelmini e il cardinale Bertone si sono trovati, negli ultimi 25 anni circa, dalla stessa parte della barricata. Tra le diverse storie che si intrecciano e si agglomerano nel nostro presente storico, ne scelgo soltanto una, quella degli anni che vanno dal 1922 al 1926, gli anni della nascita del fascismo, o meglio del clerico-fascismo, perché ci consente di gettare, al di là di tutti i recenti e pietosi revisionismi, un ponte verso quel passato, un ponte tanto più spaventoso quanto molto trafficato ai nostri giorni. Il clerico-fascismo, categoria ambigua ma pregnante trattata da Luzzatto in maniera più articolata nel suo splendido libro su Padre Pio del 2007, sembra riagguantarci – beninteso, in forme nuove: la storia non si ripete – e prenderci alle spalle proprio quando credevamo che fosse diventata una mera materia scolastica.

Dunque, è proprio vero che il crocifisso è sempre stato appeso nelle nostre scuole, caserme, ospedali, tribunali? No. Nonostante una legge Casati del 1859 stabilisse l’obbligo di esporre il crocifisso e il ritratto del re in tutte le scuole elementari del regno, nell’Italia laica e post-unitaria, nata non senza la Chiesa ma contro la Chiesa, la direttiva era ampiamente disattesa, tanto che il 22 novembre 1922, neanche un mese dopo la marcia su Roma, il governo Mussolini, per mano del sottosegretario all’istruzione, emanava una circolare in cui lamentava questo stato di cose e prescriveva di rimettere subito i simboli al loro posto. Ben presto, tra il ’23 e il ’26, la direttiva venne estesa a tutti gli edifici pubblici, a tutte le scuole, di ogni ordine e grado, e infine ai tribunali. Dietro questa serie di decreti stava, e Luzzatto ricorda alcune eloquenti biografie, una pattuglia di gerarchi del Fascio con le mani ancora sporche di sangue.

Anche se sono da prendere con le molle, ricordiamoci delle parole con cui Malaparte descriveva la marcia su Roma: si trattava della sospirata e tanto attesa «vittoria dell’Italia cattolica, terragna, antimoderna, anticivile» contro quell’altra «Italia laica, cittadina, esterofila e viziosa». Ricorda qualcosa?

Titolo: Il crocifisso di Stato
Autore: Sergio Luzzatto
Editore: Einaudi
Dati: 2011, 100 pp., 10,00 €

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Resistenza – المقاومة

Il Cairo  (Gennaio 2011)I principali quotidiani italiani hanno ufficialmente mollato la presa: la cronaca delle vicende egiziane è sparita dalle prime pagine. Non c’è più interesse nel raccontare giorni e giorni di proteste caratterizzate da pochi scontri, militari che posizionano carri armati senza poi usarli e soprattutto fondamentalisti islamici che continuano a rappresentare una minoranza nel multiforme e colorato mondo della protesta anti-Mubarak. La lunga gara di resistenza tra popolo (o una sua larga parte) e monarca è diventata su questa sponda del mediterraneo poco interessante: le notizie non collegate a sesso e morte di solito vendono poco. Urge un cambio di prospettiva, magari con un respiro più ampio di quello della cronaca: in nostro aiuto arriva Metro, graphic novel scritta e disegnata da Magdy El Shafee e pubblicata in Italia nel dicembre del 2010. Un tempismo quasi perfetto.

Metro - di El Shafee Magdy (arab cover)Il romanzo grafico è ambientato a Il Cairo, tra periferie e centro città, seguendo gli spostamenti via metropolitana di alcuni personaggi in cerca di una via di fuga dalla “trappola” egiziana, a qualsiasi costo. L’innesco è rappresentato da una rapina a mano armata ad alto tasso tecnologico: un filo conduttore che serve per reggere un intreccio di eventi tra cui una rivolta urbana destinata a finire in un bagno di sangue per l’intervento dei prezzolati del regime. La vera protagonista è però la città, Il Cairo, rappresentata con una atmosfera che sembra portare ai nostri giorni la narrativa di Nagib Mahfuz, pur con le dovute differenze stilistiche. La rappresentazione lucida di una realtà caotica e complessa è però sorprendentemente sintetizzata in poche pagine, attraverso la metafora della trappola tesa dalla città – l‘establishment egiziano – a tutti i suoi abitanti: attraverso gli occhi del protagonista viene subito messo in chiaro come non ci sia modo per disinnescare il sistema, una volta all’interno. L’unica via è la fuga. In questo caso, attraverso un’ azione violenta di tipo personale: la rapina.

Metro - di El Shafee Magdy (pag. 1)Da questa descrizione potrebbe venire il dubbio che sia stata appropriata la condanna emessa nei confronti dell’opera di El Shafee: Metro è stato pubblicato per la prima volta in Egitto nel 2009 e dopo soli tre mesi è stata ritirata ogni copia dalle librerie per oscenità e scene violente. Tuttavia non ci troviamo di fronte alla rappresentazione compiaciuta della violenza fine a se stessa, né per la verità a una visione della violenza nella sua forma grottesca o romantica e mitizzata (Miller per intenderci è molto più crudo ed esplicito): la violenza e la pornografia (un paio di vignette che è arduo definire anche solo erotiche) sono ovviamente una scusa. Il problema sono i volti e le storie a loro connesse, i pochi tratti sufficienti a richiamare nella mente del lettore egiziano figure di politici corrotti, disposti a tutto pur di arricchirsi e proteggere la propria posizione, una popolazione che non riesce a liberarsi da chi la affama e che si è rassegnata a subire un sistema nella speranza – vana – di poter un giorno passare dall’altra parte della barricata.

Se questo ci porta in mente qualcosa, non sorprendiamoci troppo: il Mediterraneo è un piccolo mare e per quanto negli ultimi 20 anni abbiano provato a insegnarci il contrario, questo mare non è un confine, ma un ponte. Sponda nord o sponda sud, abbiamo più punti in comune di quanti ne abbiamo che ci distinguano. Per cui El Shafee parla anche a noi.

Metro - di El Shafee Magdy (cover)Titolo: Metro
Autore: El Shafee Magdy
Editore: Il Sirente
Dati: 2010, 112 pp., 15.00 €

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