The Art of Punk: l'identità visiva di Black Flag, Crass e Dead Kennedys

My name’s Raymond Pettibon and I designed this motherfuckin’ thing. […] To depict the name “Black Flag”… 90% of the motherfuckers would come up with the same scheme, you know?
Raymond Pettibon, artista, ideatore del monicker “Black Flag” e autore del “four bars” logo

I live not far from 8th street, you know, there’s still old-style punks on 8th street, and every now and again I’d see someone wearing the Crass symbol, and I’d think “Oh, I should go and say hello”, you know, I should say “Oh, excuse me young man, do you know that I designed that logo?”, and they’d be like “Piss off, grandad!”
Dave King, graphic designer, autore del logo dei Crass

Art is plagiarism, you know… and that’s what so exciting and wonderful about it. You take something and you push it up a different avenue, and you make it, you know, say some more.
Gee Vaucher, artista, collaboratrice dei Crass

I don’t think it’s a totally genius idea, I don’t think it’s a masterpiece, it’s just a little, clever, kinda angular symbol. I’m shocked that it still is around, I’m shocked that there’s people who appreciate it, I’m shocked that the movement actually lasted a whole lot longer than hippie-dippie trip, or the beatnick scene.
Winston Smith, collage artist, autore del logo dei Dead Kennedys

Il connubio tra arti visive e musica rock vi affascina? Siete tra coloro che amano gettarsi nella più selvaggia mosh pit, incuranti delle anfibiate che potrebbero da un momento all’altro arrivarvi in pieno muso, facendovi saltare due incisivi? Come degli adolescenti continuate a scarabocchiare su qualunque superficie vi capiti a tiro le quattro minacciose barre nere che identificano in modo univoco i Black Flag, o il tagliente monogramma dei Dead Kennedys, o il simbolo dal sapore quasi militarista dei Crass? O magari ve li siete tatuati sul braccio, sulla schiena, sul collo, o in altri posti meno adatti ad essere esibiti in pubblico? Oppure siete semplicemente curiosi di sapere cosa si cela dietro questi celebri emblemi, e in che modo essi riflettono l’ideologia e l’attitudine punk delle band che li adottarono, il tutto mentre vi ascoltate una manciata di riff al fulmicotone, di quelli che ormai non si sentono quasi più?

Bene, abbiamo quello che fa per voi: appena qualche giorno fa, infatti, è stato pubblicato su MOCAtv, canale YouTube del Museum of Contemporary Art di Los Angeles, il terzo e ultimo (per ora?) documentario della serie The Art of Punk, e abbiamo pensato che fosse cosa buona e giusta, oltre che gradita a voi fedeli lettori di AtlantideZine, offrire una panoramica di questa interessante, ancorché troppo breve, webserie.

art-of-punk-black-flagart-of-punk-crassart-of-punk-dead-kennedys

The Art of Punk nasce da un’idea di Bryan Ray Turcotte (al quale Vice ha dedicato un’intervista proprio un paio di giorni fa), testimone diretto, sia da musicista che da fan, della scena punk californiana, e soprattutto meticoloso collezionista di flyer promozionali di concerti punk. Nel corso degli anni Turcotte ha accumulato un’enorme mole di manifestini e poster di concerti, costruendo una sorta di memoria visiva del movimento, ed è stato bravo ed intraprendente nel saper unire l’utile al dilettevole attraverso la fondazione della casa editrice Kill Your Idols, specializzata nell’organizzazione di mostre e nella pubblicazione di raccolte di tutto ciò che è legato alla cultura punk, tra le quali spicca il volume Fucked Up + Photocopied che vedrete bruciare nella sigla di apertura dei tre documentari in questione. Affascinato dalla simbiosi tra musica e arti visive che ha accompagnato la controcultura punk sin dagli albori, Turcotte, in collaborazione con il fotografo, produttore e filmmaker Bo Bushnell, ha creato, prodotto e realizzato per MOCAtv i documentari che compongono la serie, un progetto dedicato alla storia musicale ed artistica di tre band seminali di quella scena musicale/culturale che tra la fine degli Anni ’70 e l’inizio degli Anni ’80 mise a ferro e fuoco gli Stati Uniti e il Regno Unito: i Black Flag e i Dead Kennedys, pionieri dell’hardcore tra SoCal e Bay Area, e i Crass, padri dell’anarcho-punk inglese. Sono tre band, queste, il cui ben noto furore sonoro ha trovato degna controparte nella violenza iconoclasta e nell’ironia insolente del proprio repertorio iconografico. Tre band capaci di combinare la forza di entrambi i codici espressivi in un furibondo attacco alla cultura mainstream, e canalizzare così la rabbia e la frustrazione di una generazione orfana dei sogni coltivati durante il decennio precedente, calpestati e soffocati dal liberismo senza freni che proprio in quegli anni, assumendo le minacciose forme della famigerata reaganomics e dall’autoritarsmo thatcheriano, gettava le basi della sua lunga, e fino ad ora incontrastata, egemonia.

artofpunkflyerThe Art of Punk è un frenetico viaggio che in sole tre fermate si propone di andare alla ricerca delle radici del punk e alla scoperta della sua cifra estetica, un viaggio durante il quale Turcotte e Bushnell raccolgono le testimonianze dei protagonisti di quell’irripetibile periodo e provano a ricostruire la genesi dello stretto legame che intercorre tra l’espressione musicale, l’ethos, l’ideologia politica e lo stile della comunicazione visiva adottato da queste band. Prendendo le mosse dal design degli iconici loghi, The Art of Punk finisce per sviscerare la filosofia sottostante l’adozione di quell’inconfondibile aspetto grafico che caratterizza tutti gli artefatti materiali riconducibili al movimento punk, dalle fanzine ai flyers ai manifesti dei concerti, passando per le copertine dei dischi e delle t-shirt, un patrimonio artistico le cui componenti fondamentali sono felicemente riassunte nelle parole di Jello Biafra, mente dei Dead Kennedys:

From the very beginning punk’s visual art was deliberately simple, DIY, anybody could make it if you had a demented enough brain. All it took was scissors or razorblade and some glue, and you could make collages […] We don’t need complicated stuff, we can just make it all by ourselves, and one wicked idea, especially one that’s gonna offend almost everybody who sees it, that’s the way to go.

I tre ritratti sono brevi, brevissimi — il più lungo dura poco più di ventri minuti, gli altri non arrivano al quarto d’ora — e costruiti in modo abbastanza canonico giustapponendo frammenti di interviste ad esplosioni sonore perfette per sottolineare la potenza delle immagini, eppure riescono a tratteggiare in modo sorprendentemente efficace la storia delle band e le circostanze che portarono alla creazione di un movimento in grado di veicolare il proprio messaggio radicale e la propria ribellione tanto attraverso il materiale sonoro, fatto di musica e testi iperaggressivi, quanto per mezzo di precise scelte grafiche ed estetiche altrettanto oltraggiose.

blackflag_policestorycrass_bloodyrevolutionsdeadkennedys_plasticsurgerydisasters

Attraverso le testimonianze dirette degli artisti (Raymond Pettibon, Winston Smith, Dave King e Gee Vaucher), dei musicisti (fanno la loro comparsa Henry Rollins, Penny Rimbaud, Jello Biafra, e, in rappresentanza del nucleo originario dei Black Flag, Keith Morris e Chuck Dukowski), e di vari personaggi in un modo o nell’altro associati al movimento ed indelebilmente influenzati da esso (Flea, l’artista pop surrealista Tim Biskup e lo skater Steve Olson, giusto per citarne alcuni), emerge quanto il discorso musicale portato avanti da queste band fosse legato in modo inestricabile alla loro identità visiva declinata nei loghi, nelle copertine, nelle illustrazioni dei poster. È il caso della simbiosi tra i Black Flag e i Raymond Pettibon, artista legato alla band non solo da vincoli familiari, ma soprattutto dal ruolo fondamentale che i suoi disegni a china ebbero nella costruzione di tutto l’immaginario che si cela dietro il nome “Black Flag”, attraverso i quali potrebbe aver fornito un contributo addirittura più sostanziale di quello, in verità già piuttosto egregio, dato con l’invenzione del monicker e la creazione grafica del logo. È anche il caso della profonda comunione di intenti, a partire dalla fiducia riposta nell’efficacia comunicativa del collage come forma di espressione visiva, tra Winston Smith e Jello Biafra, corresponsabili del caotico e provocatorio messaggio dei Dead Kennedys. Ed è, in misura forse addirittura maggiore, senza dubbio il caso di Gee Vaucher, le cui sperimentazioni artistiche, e in special modo i suoi collage, furono essenziali nell’esprimere la poetica (e l’ideologia politica) dei Crass, in modo così decisivo da farne un membro effettivo della band di Penny Rimbaud, oltre che una figura di spicco di tutto l’ambiente creativo che orbitava intorno alla Dial House e dell’arte militante in generale. (Senza trascurare l’improbabile figura di Dave King, che per modi e portamento parrebbe essere un personaggio totalmente alieno alla scena punk inglese di fine Anni ’70. D’altra parte, come ben dice il tattoo artist newyorkese Scott Campbell, “if you’re envisioning a tough punk rock persona, a british graphic designer is the last thing that comes to mind”).

art-of-punk-black-flag-june11art-of-punk-crass-june18art-of-punk-dead-kennedys-june25

Magari i puristi (ci sono sempre dei puristi) obietteranno che l’impostazione grafica dei tre video non sia sufficientemente “punk”, ma che sia, al contrario, schifosamente patinata. È potrebbero anche avere ragione, perché The Art of Punk, nel suo slancio celebrativo, pesca a mani basse tra i cliché di quella stessa estetica che si propone di indagare, peccando in un certo qual modo di conformismo, che nel codice morale del punk praticante ci risulta essere un peccato capitale la cui gravità è di poco inferiore all’aver votato per Maggie Thatcher. Il lettering del titolo realizzato con i caratteri ritagliati dai giornali, le immagini accostate in disordinati collage, l’uso e abuso di tutto quel campionario di effetti che puntano a creare un’artificiale aura lo-fi (le finte sfocature, le finte bruciature della pellicola, e l’infinita gamma di imperfezioni, graffi, tagli e salti di quadro): gli stilemi prevedibili sono senza dubbio abbondanti. E anche la glorificazione dell’aspetto grafico dei loghi, la loro trasformazione in brand, potrà sembrare quasi un testacoda ideologico: cosa c’è di meno punk del trasformare il logo della propria band in un brand, alla stregua di una qualsiasi corporation? Magari ci si può rassegnare e ammettere che è così che va il mondo, la battaglia è persa, i cattivi hanno vinto, e pazienza. (D’altra parte, inutile stupirsi: il funerale del punk è stato celebrato dagli stessi Crass svariati decenni or sono). Oppure la si può guardare in altro modo, e ci vengono in soccorso ancora una volta le parole di Jello:

I am not a brand, I am a person! But at the same time I recognize that THAT thing is a precious thing to be respected, used wisely, always go for something that’s gonna grab people.

che ben si sposano con la chiosa conclusiva di Winston Smith:

[Still hoping that] people will continue to utilize it as a symbol of  “stand up, don’t sit down”. Like I said, we may not win, but let’s not go down without a fight.

Insomma, magari i tre video non diranno nulla di nuovo a chi già apprezza le band (o magari le detesta) e ne conosce vita, morte e miracoli. Ma a noi sono piaciuti, e magari sbagliamo, ma ci pare che l’attitudine sia quella giusta, e che il progetto trasudi passione sincera e genuina. Anzi, ci sono piaciuti così tanto che vorremmo vederne molti altri: non si meritano forse le loro piccole monografie anche Discharge, D.R.I., Circle Jerks, Agnostic Front, Suicidal Tendencies, D.O.A., Cro-Mags? Chissà. Per adesso, godiamoci questi.

I. The Art of Punk – Black Flag: The Art of Raymond Pettibon

II. The Art of Punk – Crass: The Art of Dave King and Gee Vaucher

III. The Art of Punk – Dead Kennedys: The Art of Winston Smith