L'Italia è cattiva: la parola non basta

La domanda è: perché chi gode di un grande potere (criminale) sente la necessità di sminuire, denigrare o addirittura condannare a morte un semplice scrittore?
A partire da questa domanda si aprono i due lunghi monologhi presentati da Einaudi nella veste di libro e dvd.

Per rispondere, è necessario partire dal successo nazionale e internazionale di Gomorra.
In quel libro, Saviano ci ha svelato le meccaniche intorno alle quali ruota l’organizzazione criminale nota come Camorra: un misto di potere e denaro, controllo del territorio e business con ogni mezzo, in ogni possibile dimensione offerta dal capitalismo contemporaneo, anche a costo della vita propria e di quella altrui.


© Ph. Grazia Bucca –grazia.bucca@gmail.com

In pochi anni, Gomorra non è solo diventato un caso editoriale: è un fenomeno culturale e sociale, lo squarcio del velo opprimente che cristallizzava la rappresentazione delle organizzazioni criminali in una visione epica, a tratti romantica. Saviano ci descrive invece una Camorra reale e la rappresenta nella sua concreta brutalità, nella sua quotidiana gestione di capitali enormi, distribuiti in interessi nazionali e internazionali eterogenei.
In Saviano l’epica si sposta dai protagonisti criminali – con le scalate al vertice tipiche della narrazione cinematografica- alla prospettiva di chi è coinvolto suo malgrado nel circuito malavitoso, perché semplicemente vi vive all’interno e non può che osservarne le dinamiche o prendervi parte come ultima ruota del carro, come esistenza che più di altre è dispensabile nei confronti degli interessi in gioco.
Una prospettiva che porta chi legge o -come in questo caso ascolta- questo autore a diventare egli stesso uno spettatore o una vittima del conflitto che ha provocato 4000 morti nella sola Campania negli ultimi 30 anni (oltre 10’000 tra Sicilia, Calabria e Campania: un computo che supera i morti nelle zone di molti conflitti riconosciuti).

Qui è il punto, perché di libri e articoli che abbiano parlato di camorra in modo chiaro e competente se ne possono contare diversi. Ma non è solo un problema di contenuti, il problema è che questa narrazione da New Italian Epic (come definito da WM1 su Carmilla ormai un paio di anni fa) permette a delle storie apparentemente molto particolari, e contestualizzate nel microcosmo campano, di avere cittadinanza universale, superando le barriere generate attorno a un linguaggio così specifico, al punto che il termine stesso “camorra” sia considerato d’uso straniero.

“Il Sistema” -la Camorra- non gradisce che all’esterno sia comprensibile il proprio lessico e che siano svelati i codici in base ai quali comunica e agisce. Questa rappresentazione così reale la sminuisce, la rende un fatto umano, la priva dell’alone di mito e potere che circonda i boss, evidenziando la vita miserabile della stragrande maggioranza degli affiliati.
Non si può concedere che, una volta trovata la guida al suo vocabolario, ci sia chi si prenda la briga di accompagnare il lettore/ascoltatore nei meandri del suo mondo.
Per poter prosperare, questo Moloc così umano ha bisogno di degrado dove andare a pescare la propria manodopera e di silenzio, perché chi compra capi d’alta moda spendendo migliaia di euro non sappia quale sia stato il percorso della loro fabbricazione.

Saviano mette, quindi, in pericolo gli interessi di molti e deve essere distrutto, se non fisicamente, almeno moralmente, in modo che il valore delle sue parole sia depotenziato.
Autorità o vita: le parole di Saviano ci accompagnano attraverso la storia recente, mostrando come sia estremamente difficile per chi combatte il potere riuscire a godere di entrambe le cose allo stesso momento (gli esempi di Falcone e della Politkovskaja appaiono entrambi inquietanti nel loro epilogo). Ai morti si concede più facilmente l’autorità, perché se ne possono distorcere le parole. Da qui la battaglia di Saviano, che deve difendersi dalle accuse di opportunismo, di “furbizia” (in quella accezione negativa tipica italiana) e in fondo, deve difendersi dall’unica vera accusa che sottostà ad ogni altra, ovvero quella di essere riuscito a raggiungere un pubblico così ampio, di aver parlato e svelato quello di cui è a conoscenza a così tante persone, in tutto il mondo.

Ci vuole molto coraggio per continuare a combattere questa battaglia dagli esiti incerti, soprattutto sul piano personale: il nostro compito (di tutti coloro che hanno in sé un minimo sentimento di democrazia e giustizia) è quello di tenere accesi i riflettori su Saviano, per dargli la possibilità di vivere e continuare a raccontare, come sa fare.
Ma non possiamo accontentarci di fare questo: la parola, la narrazione e l’analisi, sono strumenti necessari ma non sufficienti a modificare lo stato delle cose.

In un passaggio, Saviano sbatte in faccia al lettore/ascoltatore un verità dolorosa: l’Italia è un Paese cattivo. Non tanto per via dei suoi molteplici Moloc, ma perché da un lato pensa di alimentarli per trarne vantaggio personale e perché dall’altro ha smesso di provare a mettere in campo delle forze che siano in grado di provare a distruggerli.

Titolo: La parola contro la camorra
Autore: Roberto Saviano
Editore: Einaudi
Dati: libro+dvd, 2010, XXIX-65 pp., 19.50 €

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La fatica di essere donne in Italia

Essere donne in Italia è una gran fatica, per non parlare di quanto sia faticoso essere femministe.
Il libro–inchiesta di Anaïs Ginori ne è, purtroppo, una conferma. I racconti che costituiscono il libro sono una miniera di informazioni per chi, come molte, non si spiega dove siano finite le conquiste del femminismo degli anni passati.

Si va dalla giovane pubblicitaria al consigliere regionale che non rinuncia a essere madre (e per questo definita una “pasionaria”) al regista di film porno basati sui temi di incesto e stupro, alle illuminanti parole di Luisa Muraro.

Tutto il libro è solcato da un fil-rouge. Si tratta di una domanda scomoda, per chi la pone e per chi la riceve: dov’è finito il femminismo?
Sepolto sotto strati di trucco, volato via da sotto alle cortissime minigonne (non più segno di emancipazione, anzi), in mano ad un bimbo che non smette di piangere o nelle parole di chi licenzia se si resta incinte?

E le femministe? Si sono adagiate sugli allori delle antiche conquiste, o sperano ancora di poter ottenere qualcosa?

L’Italia è uno dei paesi più maschilisti d’Europa. Il nostro Premier è definito “utilizzatore finale” delle escort e a poche viene la pelle d’oca, le selezioni per diventare velina sono quasi più rigide che quelle per entrare all’università, se una ragazza viene stuprata “forse era vestita da mignotta”. Tutto quello che dovrebbe farci rabbrividire è diventato luogo comune e, alla fine, normalità. È vero che il femminismo va a ondate, ma, dopo una risacca di queste proporzioni, la speranza  è che l’onda sia maestosa.

Pensare l’impossibile: un libro denso di senso critico e di speranza, che può aiutare a trovare una propria dimensione dell’impossibile, e a pensarlo come reale.

Abbiamo rivolto alcune domande all’autrice, Anaïs Ginori.

D:  Come si è arrivati, dopo anni di lotta, a un concetto di femminismo  falsato e ipocrita non più espresso dallo storico motto “ Io sono mia ”; Cosa ha generato l’antifemminismo imperante che ci ha abituato a considerare emancipazione rifarsi il seno, concedere il proprio corpo per trarre benefici, sognare di essere showgirl piuttosto che ricercatrici?

R: Ci ritroviamo a confondere una forma esasperata di liberazione del
corpo con nuove forme di sottomissione femminili. Il problema, purtroppo, è che  spesso non si può neanche discutere di questa situazione. Quando una voce contraria si alza contro le veline viene subito giudicata “moralista”, “bacchettona”, e in quanto tale azzittita. I centimetri che abbiamo perso in questi anni sono intorno a noi. Basta sentire certi discorsi, leggere le cronache di giornali e accendere la televisione. È paradossale perché l’Italia è forse il paese europeo dove la rappresentazione femminile è più spinta, in ogni senso. Basta guardare le pubblicità nelle strade, accendere appunto la tv. Grandi quantitativi di ragazze pronte all’uso, o almeno così fanno sembrare. Succede anche all’estero, ma solo da noi è un’ossessione così totalizzante. Queste giovani donne usano le libertà che le loro madri hanno faticosamente ottenuto come un brutto scherzo, una beffa.

D: Il disinteresse diffuso per il tema del femminismo, soprattutto da parte delle nuove generazioni, può essere considerato un campanello d’allarme per la situazione della società moderna?

R: Ha ragione Luisa Muraro quando constata che la parola “femminista” suscita ancora molta antipatia. Ma non è una novità. Il cammino di emancipazione delle donne è stato sempre accompagnato da scherno, caricature, insulti. Credo dunque che il disagio intorno a questa parola significa che, in fondo, il cammino cominciato dalle nostre nonne è ancora lungo. Voglio però precisare che le ragazze che ho incontrato per scrivere questo libro non sono tutte veline.
Molte provano un senso di disillusione. Sono cresciute pensando che i diritti erano tutti già conquistati, che la parità fosse un dato acquisito. Hanno
scoperto che non è così. Le donne si laureano più degli uomini, hanno voti migliori ma le differenze nel salario e nella carriera sono enormi. Certo l’arretratezza delle donne è sinonimo di un’arretratezza più generale del paese.
L’Italia è al 72esimo posto della classifica mondiale del Gender Gap, il divario di genere. Tutti gli indicatori economici mostrano che quando le donne avanzano è la società tutta che progredisce.

D: Pensare l’impossibile, l’ossimoro che dà il titolo e che è la chiave di lettura dell’intero libro, è un segno di speranza o invece una costatazione del senso di impotenza che prova una donna, ogni giorno, nel confrontarsi con gli schemi di una società sempre più maschilista?

R: Il titolo si presta a una doppia lettura. Ci è piaciuto proprio perché esprime la condizione di ambivalenza nella quale ci troviamo. Rispetto a un secolo fa abbiamo ottenuto diritti considerati allora impossibili. Cento anni fa le donne non votavano, non potevano studiare o lavorare come gli uomini, non sceglievano quando fare figli. Pensare l’impossibile significa, insomma, immaginare che questo cammino di emancipazione possa andare avanti. D’altra parte, la mia generazione è cresciuta pensando che la parità delle libertà e dei diritti fosse ormai conquistata. E invece ci sembra di essere di nuovo sulla difensiva.
Pensavamo fosse impossibile tornare indietro: ci siamo rese conto che purtroppo non è così.

D: Quando l’Italia è diventata un Paese maschilista? Certamente qualche anno fa non lo era… si può pensare a uno specifico momento o si è trattato di una metamorfosi che continua ancora oggi?

R: La lenta assuefazione alla volgarità e allo svilimento è cominciata vent’anni fa, con l’arrivo della televisione commerciale e un ‘format’ di immagine femminile solo intesa come corpo oggetto. In questi anni c’è stato anche un legittimo ripiego di molte donne nella vita privata. Dopo tante battaglie nella sfera pubblica, c’era la voglia di occuparsi delle proprie priorità, di realizzarsi nella professione o nella famiglia. Forse ha giocato anche la sensazione di aver vinto, l’idea che il più fosse ormai fatto. Purtroppo non era così. E oggi, per la prima volta da decenni, le donne italiane, quelle non ancora completamente rassegnate, hanno paura di tornare indietro. Vedono la loro libertà minacciata e sentono che gli uomini riprendono il controllo sul loro corpo. È una pressione costante, fatta di battute, episodi umilianti, nuovi e inaspettati ostacoli. È la fine di troppe cose, il precipitare di ogni certezza e speranza. C’è davvero una strana alchimia che intorpidisce le coscienze, come ha detto anche Veronica Lario a proposito del “ciarpame senza pudore”.
D:  Che in Italia l’essere femminista sia motivo di scherno ed emarginazione è fatto tristemente noto: quanto influiscono  il punto di vista delle istituzioni e la vicinanza del Vaticano a quest’opera di indebolimento del pensiero femminista?

R: Il discorso del rapporto tra femminismo e religione è complesso e sfaccettato. Guardando alla situazione di oggi sembra che si sia perduta quella ‘trasversalità’ che aveva permesso a molte donne, cattoliche e non, di lottare per il diritto al voto, poi al divorzio e infine all’aborto. Ultimamente, si è anche creata una corrente delle cosiddette ‘femministe devote’, che rimettono in discussione alcuni di questi diritti.

Titolo: Pensare l’impossibile.
Donne che non si arrendono

Autore: Anaïs Ginori
Editore: Fandango libri
Dati: 2010, 154 pp., ill., € 14,00

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