Edipo è morto: viva Edipo ma lunga vita a Telemaco!

“La morte del Padre toglierà alla letteratura molti suoi piaceri. Se non c’è più un Padre, a che raccontare delle storie? Ogni racconto non si riconduce forse all’ Edipo? Raccontare non è sempre cercare la propria origine, dire i propri fastidi con la legge, entrare nella dialettica dell’ intenerimento e dell’odio? Oggi si chiude con l’Edipo come col racconto: non si ama più, non si teme più, non si racconta più”. Preoccupazioni e dilemmi lungimiranti di Roland Barthes (saggista, critico e semiologo francese) che ben si adattano al clima attuale. Sembra dargli implicitamente una risposta, più che letteraria esistenziale tout court, Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano, il cui ultimo saggio Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna ha avuto grande risonanza mediatica. Recalcati in una sequenza di interviste a cura di Francesco Bollorino, psichiatra anche lui, ideatore di psychiatry on line, sito e ora anche canale video di grande interesse che raccoglie il pensiero dei più autorevoli indagatori dell’animo umano del nostro tempo in ambito psicoanalitico e psichiatrico, sembra rispondere davvero alle preoccupazioni di Barthes. Il padre ottocentesco, più autoritario che autorevole, è un personaggio quasi estinto e così Edipo e il suo complesso, spremuto fino a diventare relitto (vedi omonimo film di Woody Allen, datato 1989): posti a tutelare l’ordine e arginare le pulsioni, sembrano ormai retaggi di una cultura al tramonto. Edipo è scavalcato dal padre che non reprime l’incesto ma lo promuove per sé e lo vive.

Recalcati rintraccia una nuova figura di padre e in suo nome tiene a battesimo un nuovo complesso ispirato a un figlio altro, Telemaco. “Ho già in mente il titolo del prossimo libro, un’opera su Lacan – ha dichiarato Recalcati a Bollorino – Cosa resta del padre dopo il complesso di Telemaco”. Bell’idea, aggiornarsi, rivedere conflitti familiari alla luce del prosciugamento postmoderno di convinzioni e rigidità, coniare nuove espressioni linguistiche che condensano  malesseri generazionali e nel condensarli incanalano disturbi presunti, immaginati, vaganti nell’aria. Dare nome alle cose, forma ed espressione linguistica a ciò che non è affiorato alla coscienza, è già liberarsene o almeno attutire i mali. Diciamolo: siamo nostalgici di Edipo, il perverso polimorfo freudiano, perché sulla scia della sua veemenza autodistruttiva abbiamo realizzato i nostri capitoli migliori e anche i peggiori della nostra storia individuale. Inoltre, nel nome di Edipo abbiamo assaggiato e gustato le migliori pagine di una letteratura immarcescibile. Come non ricordare la lettera al padre di Franz Kakfa? “Carissimo padre, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di aver paura di te. Come al solito, non ho saputo risponderti niente, in parte proprio per la paura che ho di te, in parte perché questa paura si fonda su una quantità tale di dettagli che parlando non saprei coordinarli neppure passabilmente. E se anche tento di risponderti per iscritto, il mio tentativo sarà necessariamente assai incompleto, sia perché anche nello scrivere mi sono d’ostacolo la paura che ho di te e le conseguenze, sia perché la vastità del materiale supera di gran lunga la mia memoria e il mio intelletto”.

Siamo stati testimoni leggendo questa lettera della potenza spaventosa di una figura archetipica e simbolica strettamente collegata alla Legge assoluta e imperscrutabile. Quel padre è entrato nel  nostro destino, è diventato parte del nostro sangue, ha agito in noi contro di noi. È il padre che molti di noi riconoscono sia pure in modalità perverse: non conoscendolo o disconoscendolo, per strani giochi del destino. Il padre che è presenza assoluta e schiacciante in quanto ad autorità  precostituita, coercitiva e violenta, e insieme è assenza suprema, il grande assente, non solo e non tanto nella concretezza dei giorni e delle ore, ma anche nella incapacità di sintonizzarsi con la vita emotiva del figlio permettendo che affiori la linfa vitale che cova dentro come fosse una vergogna.  Da che Gesù morendo sulla croce invoca il padre, (Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?), la storia dei rapporti tra padri e figli è stata una vicenda all’insegna della passione e del patire l’abbandono, la privazione.  Ma quanti inetti, trafitti dal senso di colpa e dall’impossibilità di aderire al proprio nucleo e vivere la propria vita, ha creato il padre padrone nel XX secolo con i suoi scatti. Basti pensare al famoso schiaffo che il padre prima di morire dà a Zeno Cosini (La coscienza di Zeno, di Italo Svevo). Uno schiaffo (“io divenuto il più debole e lui il più forte”) che ha tramortito o nel senso della resa o in quello della opposizione estrema sfociata nell’autodistruzione, più di una generazione.

Tra Lacan, il complesso di Telemaco oggetto del prossimo libro di Recalcati e il presente c’è, se le coincidenze non lo sono che di nome, una testimone eccellente, la figlia di Lacan, Sybile. Un padre, è il titolo di un suo libro pubblicato nel 1993 in cui lo definisce padre intermittente, in filigrana e racconta: “Quando sono nata, mio padre non c’era già più. Potrei anche dire che, quando sono stata concepita, era già altrove, di fatto non viveva più con mia madre. Un incontro in campagna, tra marito e moglie, quando tutto era finito, è all’origine della mia nascita. Sono il frutto della disperazione, qualcuno dirà del desiderio, ma io non ci credo. Perché dunque provo il bisogno di parlare di mio padre mentre è mia madre che ho amato e continuo ad amare anche dopo la sua morte, dopo la loro morte?”. La galleria di figli famosi menomati da padri assenti potrebbe essere lunga. Ma l’intento non è fare un necrologio o una successione di necrologi né lacerarsi le vesti per la scomparsa del Padre, ma limitarsi a registrare l’accaduto. Al “parricidio” compiuto da una cultura nichilistica molto attiva nel ‘68, ha contribuito però la stessa psicoanalisi. Recalcati lo racconta nelle interessanti conversazioni.

I fondamenti sono sprofondati. Il cielo sopra le nostre teste è vuoto, diceva Sartre, oppure come mostra Moretti nel suo ultimo film, Habemus Papam, il balcone del grande padre secondo solo a dio è vuoto. Il papa è terrorizzato, piange come un bambino. Osserva Recalcati: “La psicoanalisi ha contribuito molto al declino irreversibile dell’Edipo”. Pensiamo ai cosiddetti “maestri del sospetto”, la triade Marx, Freud, Nietszche che mette fine al mito dell’ideale e “alla maschera dell’ideale sotto la quale non c’è niente, eccetto le pulsioni refrattarie a un ordine normativo”.  È la psicoanalisi che conia l’Edipo e intanto incrina il mito del padre come fulcro della famiglia, fulcro sociale e normativo, dio in terra. Contribuisce fortemente “alla decostruzione del mito del fondamento”,  però nel frattempo dice: per fare a meno del padre bisogna servirsene. “Questa è la formula con cui Lacan condensa i rapporti  della psicoanalisi con la post modernità”. Se il fondamento non è più dato dal nome del padre, non c’è più un grande altro, granitico, che dà ragione della comunità come si abita il mondo?  “Se non ci si serve più del padre per farne a meno, si rischia di perdere la dimensione del limite, della soglia, la dimensione fondamentale della psicoanalisi, la castrazione”. Non si può più reintrodurre la vecchia autorità paterna, ma “qualcosa deve pure funzionare come nome della castrazione perché se non c’è nome della castrazione non c’è possibilità della comunità”.  Lo vediamo e lo viviamo: in questo è il rischio del postmodernismo. Si pone quindi il problema di aprire nuove vie di ricerca in forme creative,  non solo  in ambito letterario assecondando le preoccupazioni di Barthes, per raccontare questo tempo. Da che il padre se ne è andato o è stato ucciso, di mutazioni ce ne sono state tante. In società altre,  il fondamentalismo ha tentato di ripristinare il padre titanico o la sua immagine. In Italia, il berlusconismo è stato la risposta allo screditamento dell’ideale, attraverso  un uso “pubblicitario tattico, post ideologico”’ e la proliferazione dell’immaginario per il  venir meno di attrattori simbolici .

“Il godimento proposto come nuova legge morale, è il nuovo comandamento  sociale. Non vale più il sia fatta la tua volontà, ma la mia dell’io”.  Questa volontà di godimento si afferma e si espande perché è stata del tutto scissa la libertà dal principio della responsabilità che esiste invece nella vera cultura liberale.  La massa si riunisce intorno al leader non perché rappresenta una meta o propone un senso sia pure delirante, ma in quanto luogo del godimento, concentra “l’eccesso pulsionale che non solo non si deve castrare, ma può essere ragione di esistenza”. In tanto scatenamento pulsionale, nessuna confutazione razionale ha presa, (vediamo i dibattiti cosiddetti politici), non esiste verità e neanche menzogna, il principio del camaleontismo permea di sé l’agire, tutto si può rendere vero senza avere sensi di colpa o vergogna. In questo oceano di voragini, vertigini, perversioni, si inizia a scorgere, malgrado la precarietà dell’appoggio tellurico e il visibile disorientamento, una nuova figura umana: Telemaco. Chi è? Colui che combatte lontano e comincia  a guardare lontano sulla base di un’assenza che sconta da sempre. Colui che interpreta il bisogno del padre in maniera non psicotica perché non cerca un padre titanico. “Aspetta il padre che non ha mai conosciuto e guarda il mare”. Il padre non più visto come antagonista e rivale ma essere umano che è esempio perché ha attraversato mille peripezie, ha scontato ma anche rafforzato la sua umanità. “Siamo tutti un po’ Telemaco, aspettiamo il padre. Guardiamo il mare”.  Ci piacerebbe arrivasse un novello Ulisse, un eroe normalissimo, un essere umano capace di assumere su di sé “la responsabilità di educare i propri figli senza rivendicarne la proprietà e di mostrare loro che l’esperienza del limite non uccide il desiderio, casomai lo alimenta”.

D’altra parte l’Ulisse di cui parla James Hillmann e già immortalato da Alberto Savino nel testo teatrale Capitan Ulisse, è un navigatore errante, un antieroe che spesso preferisce mangiare che combattere e simula la pazzia per evitare di andare in guerra. Scrive Savinio: “Ciò che ha enormemente nuociuto al buon nome di Ulisse è la qualifica di EROE che l’anagrafe della storia ha stupidamente collocato davanti al suo nome. Eroe e Ulisse; queste due antinomie non combaciano se non nei documenti ufficiali, nei testi interpolati da quaranta secoli di incomprensione. A Ulisse manca il requisito essenziale dell’eroe: l’intelligenza del bue come pure il daltonismo prospettico connesso con le facoltà di questo mammifero superiore… Eroe ha per noi il significato corto e rumoroso di uno sparo di bombarda. Al tempo in cui Ulisse era tra la gioventù e l’età matura, il valore di eroe non superava quelle onorificenze che toccano d’ufficio a chi ha raggiunto la debita anzianità. Gli eroi di Omero erano qualcosa fra il Commendatore e il Cavaliere della Legion d’Onore. Potevo lasciare a Ulisse un naso di cartone e un abito da carnevale? Era necessario riportare il Commendatore Ulisse alla sua statura naturale.”

Il Telemaco Stephen Dedalus di Joyce nel cognome porta traccia del labirinto che è in sé e non si rifugia nel sentimentalismo per giustificare la propria condotta. Dice Joyce: “Il sentimentale è colui che vorrebbe godere senza addossarsi l’immensa responsabilità della cosa fatta”. Il suo Telemaco-Stephen, invece dice: “la storia è un incubo da cui sto cercando di destarmi”.  Se li ruoli sono rovesciati, forse ora è Telemaco ad attendere il ritorno del padre prodigo. Accogliamo con gaudio allora il  “nuovo” complesso psichico se può essere un’opportunità  di liberazione dall’incubo di questa storia, tra un padre incestuoso e un modello di vita senza limiti.

 

Titolo: Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna
Autore: Massimo Recalcati
Editore: Raffaello Cortina Editore
Dati: 2011, 189 pp., 14,00 €

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